di Francesco Marrapodi

Non erano solo notti. Era un frammento d’eternità sospeso tra mito e memoria, una soglia tra il tempo e l’oblio. E oggi, più che un sogno unificato dai ricordi, è una ricerca spirituale; una ricerca dentro una favola antica più del mondo, scolpita nella pietra della storia e scolorita a malapena dalla leggenda. È la notte — anzi, le notti, soprattutto quelle d’estate — dei pastori d’Aspromonte.
I pastori d’Aspromonte: spiriti fieri incastonati nei silenzi siderali della montagna, figure scolpite nel vento come eredi d’un mito antico. Nel presente storico si ergono, quasi immortali, come i pastori dell’Arcadia, ma con la fierezza aspra di chi porta nel sangue la polvere della Magna Grecia. Essi traggono linfa da radici ancestrali e, nell’era dell’intelligenza artificiale, custodiscono riti e usanze che profumano di storia e al tempo stesso di leggenda. In un mondo che muta inesorabile, essi hanno difeso la loro integrità culturale come un bastione, forgiando un patto sacro con la terra: un patto che li ha resi presenza perenne, colonne silenziose eppure indomabili, più resistenti di ogni altra stirpe che abbia abitato quelle plaghe.
E le notti… ah, le notti di cui parliamo non erano semplici notti e non erano fatte per il sonno. Erano notti guerriere, sentinelle del tempo, notti in cui si custodivano segreti e si tramandava saggezza come in un rito antico, affrontando con occhi ardenti e cuore stanco i fantasmi dell’oblio.
Dopo giornate spietate sotto il sole feroce, i pastori tornavano ai loro spiazzi d’erba e pietra, le membra spezzate ma l’anima intatta, luminosa. Si avvolgevano nei loro grezzi sacchi di ginestra come chi si veste d’un sudario guerriero, proteggendo la carne e liberando lo spirito. Il pasto? Povero, ma sacro: pane duro come rocce d’altare e cacio che portava con sé l’odore dell’antico, della terra, del latte e delle generazioni. Eppure nessuna fame era più grande del bisogno di silenzio, di stelle, di un abbandono che sapesse di eternità. Poi, quando calava la brezza, scendeva l’oblio. Ma era un oblio dolce, sacro, senza tempo. Non poesia, ma memoria viva, che pulsa ancora oggi. Ricordo i racconti di mio nonno, di mio padre… e un poco anche le memorie mie. Io in quelle notti, anche se le ho solo sfiorate, ho avvertito lo stesso sapore misterioso: un sapore che non si spiega, si vive. Ho colto quell’anima antica, e ancora oggi la sento vibrare nella mia, come un’eco che non svanisce. È un fondersi con la terra, con i boschi, con le montagne stesse – con l’Aspromonte. Perché quei pastori non sono soltanto uomini: sono custodi d’un sapere primordiale, perle di saggezza incastonate tra cime e burroni. Quei pastori indossavano le loro mantelle come mantelli d’eroi, camminavano tra le rovine invisibili della Magna Grecia e portavano nel cuore la voce di Omero, la sua epica segreta.
Ecco perché bastano poche parole per far vivere a chiunque l’essenza di quelle notti: e quelle notti nulla possiedono se non la magia pura di un’emozione eterna. Notti senza tempo, che appartengono alla storia, al mito e al cuore di chi, ascoltandole, ancora oggi riesce a viverle.