Sul buono e sul cattivo uso dei bronzi di Riace è il titolo di un suggestivo saggio, di Maurizio Paoletti, archeologo e docente dell’Università della Calabria, e Salvatore Settis, già direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa e dal 2010 presidente del comitato scientifico del Louvre.

L’opera pubblicata da Donzelli ha l’afflato di un autentico piccolo romanzo d’avventura e d’amore: la “pesca miracolosa” delle due statue nei pressi di Riace nell’agosto del 1972; gli interventi di restauro; i problemi di interpretazione; la “fortuna critica” ed infine l’assunzione dei due guerrieri a brand commerciale.

Certo è che questa fortunosa scoperta non è un unicum nella storia contemporanea, come ben afferma Paoletti: “Noi sappiamo ovviamente che i bronzi di Riace sono in buona compagnia, perché molte sono le opere d’arte greche e romane rinvenute in mare. Nella serie di recuperi divenuti famosi i singoli rinvenimenti – per esempio l’Apollo di Piombino ora al Museo del Louvre, lo Zeus di Capo Artemision al largo dell’isola dell’Eubea (Grecia), il satiro di Mazara attribuito a Prassitele, il cosiddetto bronzo Getty e il bronzo di Lussino ambedue ripescati nell’Adriatico – si alternano ai ricchi carichi di statue destinati al mercato dei collezionisti romani – il relitto di Anticythera (ancora in Grecia) con il suo straordinario ‘efebo’ in bronzo è senz’altro il primo della lista–.” Ciò che appare invece sorprendente è come questi due capolavori dell’arte greca siano invece stati accolti da pubblico come delle vere e proprie eroine, “inferiore solo” come dice Paoletti, al clamore e alla curiosità che suscitò nel 1506 la riscoperta del gruppo del Lacoonte.

Da quella prima mostra al museo archeologico di Firenze nel dicembre del 1980, alla mostra al Quirinale voluta dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, fino agli ultimi interventi di restauro e alle polemiche suscitate sulla loro collocazione, sono passati oltre quaranta anni, senza mai che le due statue perdessero il loro inconfutabile fascino.

Nonostante questo clamore, nonostante le due statue siano diventati simboli della Calabria ma anche dell’intera nazione italiana, qualcosa non è andata per il verso giusto come ben scrive Paoletti: “è lecito chiedere quale sia la funzione propria dei Bronzi, che è il vero focus del problema. Magnifici simboli di un ‘patrimonio culturale’ senza confini da preservare e rispettare, o semplici feticci del nostro ‘marketing culturale’ interessato a monetizzare la fama delle statue?”.

Scrive ancora il prof.re dell’Unical: “Le due statue ritornarono a Reggio Calabria nell’estate del 1981. Qualche tempo dopo fu lo stesso Touring Club a indicare ai turisti che si recavano in Calabria la segnaletica di questa strada tutta pericolosamente in discesa. Il viaggio era annunciato sotto il titolo I santini di Riace. Intorno al museo che ospita i “bronzi” si è sviluppata un’assurda sagra del kitsch. Copie dei guerrieri si vendono come immaginette religiose vicino ai santuari”.

Quello di Paoletti e di Settis è un volume da leggere tutto di un fiato. Veloce, coinvolgente, dalla straordinaria fluidità della penna, passa con disinvoltura dalla lucidità del saggio scientifico alla denuncia sociale per il modo in cui troppo spesso la classicità viene assunta a simbolo di prestigio e di vanto diventando merce di mere operazioni di marketing.

Antonio Bonifati, studente magistrale di Storia dell’Arte presso l’Università della Calabria, dichiara: “il volume dei prof.ri Paoletti e Settis, combina la pubblicazione scientifica con quella di denuncia sociale. Nell’eleganza che contraddistingue l’inchiostro del prof.re Paoletti si cela anche il guanto di ferro con cui sferra un colpo a viso aperto a quel sordido gioco di interessi e di insofferenza verso i beni artistici e culturali che diventano troppo spesso oggetto non di tutela e di valorizzazione ma di mercificazione e di interessi di parte. Leggere “Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace” significa anche riflettere sul valore Cultura, su quanto ancora c’è da fare affinché la storia dell’arte e l’archeologia possano diventare strumenti di riscatto sociale e culturale per un mondo che preferisce l’effimero al “bello” che l’arte porta con

Elia Fiorenza

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