Gianluca Albanese-lente locale

MARINA DI GIOIOSA IONICA – La notizia è che in Italia la divisione dei poteri esiste ancora e resiste a ogni indirizzo governativo o ministeriale improntato al depotenziamento o, in molti casi, alla distruzione di realtà amministrative senza macchia e i cui rappresentanti non hanno nulla da rimproverarsi. E che non si possono sciogliere i consigli comunali se non ci sono i presupposti idonei.

L’analisi della sentenza del TAR del Lazio (presidente Ivo Correale) con la quale è stato accolto il ricorso presentato dall’avvocato Francesco Macrì, teso a ottenere l’annullamento del D.P.R. Del 24 novembre del 2017 col quale era stato disposto lo scioglimento del consiglio comunale di Marina di Gioiosa Ionica per asserite infiltrazioni mafiose, evidenzia anzitutto che tale pronunciamento della giurisdizione amministrativa è immediatamente esecutivo, anche se la Prefettura di Reggio Calabria, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Interno dovessero ricorrere al Consiglio di Stato.

Insomma, a brevissimo, avverrà il passaggio di consegne tra la Commissione Straordinaria insediatasi a seguito del decreto di scioglimento e l’amministrazione comunale eletta nel mese di novembre del 2013, che quindi tornerà in carica fino alle prossime elezioni.

E, a onor del vero, quella degli amministratori comunali della Giunta Vestito, è una redenzione netta, incontrovertibile e totale. Lo si evince dalla corposa giurisprudenza composta da sentenze del Consiglio di Stato del decennio precedente, richiamate nella sentenza. Non solo. Gli amministratori ricorrenti, inoltre, hanno fin da subito contestato il fatto che “La relazione del Ministro dell’Interno riprende pedissequamente la linea dei fatti e delle argomentazioni sviluppate dal Prefetto di Reggio Calabria e che questi, a sua volta, è pervenuto nelle sue determinazioni sulla scorta del contenuto della relazione conclusiva redatta dalla Commissione d’indagine dallo stesso nominata”, formulando, di conseguenza, un unico, articolato, motivo di impugnazione in cui hanno dedotto la mancanza dei presupposti per disporre lo scioglimento del Consiglio comunale.

Le sopracitate sentenze del Consiglio di Stato sono state utilizzate dal TAR del Lazio per desumere i principi generali applicabili in materia.

Di seguito le principali.

“Valga per tutti quanto precisato dal Consiglio di Stato (Sez. III, 24 aprile 2015, n. 2054), secondo cui lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose costituisce una misura straordinaria di prevenzione (Corte Cost. n. 103/1993), che l’ordinamento ha apprestato per rimediare a situazioni patologiche di compromissione del naturale funzionamento dell’autogoverno locale (Cons. Stato, Sezione III, 28.5.13, n. 2895); il D.P.R. con il quale è disposto lo scioglimento e la relazione ministeriale di accompagnamento costituiscono, quindi, atti di “alta amministrazione”, perché orientati a determinare ugualmente la tutela di un interesse pubblico, legato alla prevalenza delle azioni di contrasto alle c.d. “mafie” rispetto alla conservazione degli esiti delle consultazioni elettorali (Cons. Stato, Sez. III, n. 2895/2013 cit.).

In relazione agli elementi sulla base dei quali può essere disposto il provvedimento di scioglimento ex art. 143 TUEL, le vicende che ne costituiscono il presupposto devono essere considerate “nel loro insieme”, non atomisticamente, e devono risultare idonee a delineare, con una ragionevole ricostruzione, il quadro complessivo del condizionamento “mafioso” (in termini: Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2011, n. 1547).

Ne consegue che assumono rilievo situazioni non traducibili in episodici addebiti personali ma tali da rendere – nel loro insieme – plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata (tra cui, in misura non esaustiva: vincoli di parentela o affinità, rapporti di amicizia o di affari, frequentazioni) e ciò pur quando il valore indiziario degli elementi raccolti non sia sufficiente per l’avvio dell’azione penale o per l’adozione di misure individuali di prevenzione (Cons. di Stato, Sez. III, 2 luglio 2014, n. 3340)”.

“A ciò deve aggiungersi che, se è vero che gli elementi raccolti devono essere “concreti, univoci e rilevanti”, come è richiesto dalla “nuova formulazione” dell’art. 143, comma 1, Tuel, è tuttavia solo dall’esame complessivo di tali elementi che si può ricavare, da un lato, il quadro e il grado del condizionamento mafioso e, dall’altro, la ragionevolezza della ricostruzione operata quale presupposto per la misura dello scioglimento degli organi dell’ente, potendo essere sufficiente allo scopo anche soltanto un atteggiamento di debolezza, omissione di vigilanza e controllo, incapacità di gestione della “macchina” amministrativa da parte degli organi politici che sia stato idoneo a beneficiare soggetti riconducibili ad ambienti “controindicati” (Cons. Stato, Sez. III, 28 maggio 2013, n. 2895)”.

Tutto ciò premesso, la sentenza del TAR del Lazio smonta, di fatto, tutti i motivi addotti dalla filiera Prefettura di Reggio Calabria-Ministero dell’Interno-Presidenza del Consiglio dei Ministri il cui lavoro ha costituito il naturale preludio al Dpr che nel novembre del 2017 ha portato allo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.

Proprio così, perchè la sentenza recita che “Passando all’esame del merito del ricorso, esso merita accoglimento, alla stregua delle seguenti considerazioni” che, di fatto, smontano pezzo per pezzo il decreto di scioglimento.

“In primo luogo, vanno richiamate le considerazioni svolte nella proposta del Ministero dell’interno, allegata al decreto di scioglimento, circa la posizione degli organi elettivi dell’ente e le elezioni amministrative tenutesi il 17 e 18 novembre 2013. In proposito, è dato risalto alla presenza di legami di parentela e di affinità ovvero di frequentazione tra sottoscrittori delle due liste di candidati presentatesi alle consultazioni elettorali. Tuttavia, tale evenienza non viene correlata, neppure in termini ipotetici, alla possibilità di tali soggetti controindicati di condizionare l’operato degli amministratori locali. Anzi, sul punto, la relazione prefettizia, richiamando i risultati della Commissione di accesso, osserva come “dalla disamina delle informazioni acquisite dalle Forze di Polizia sugli amministratori locali attuali nulla è risultato”.

Viene riscontrata, in termini negativi, esclusivamente la figura di un assessore, per l’incompatibilità con la sua attività professionale in seno all’Ente e la partecipazione ad un evento in memoria di un soggetto ritenuto appartenente a una delle cosche operanti nel territorio. Le circostanze prodotte, tuttavia, in coerenza con la giurisprudenza sopra richiamata, non appaiono rilevanti, riguardando contestazioni relative allo svolgimento legittimo dell’attività professionale dell’amministratore e una situazione di carattere episodico (la partecipazione a un “memorial” in ricordo di un soggetto il cui padre era esponente della criminalità mafiosa), priva di significatività ai fini della possibile esistenza, anche solo in termini sintomatici, di contatti fra il predetto ex amministratore e consorterie di stampo mafioso, in assenza di ulteriori elementi.

Quanto alla parentela tra uno dei Consiglieri eletti e un soggetto legato a una cosca locale, negli atti a supporto del provvedimento di scioglimento non si dà conto di alcun elemento indiziario a suo carico, ma anzi si sottolinea come lo stesso si sia dimesso nel 2015; parte ricorrente, inoltre, ha allegato agli atti del giudizio documentazione comprovante come questo soggetto, tra l’altro dimessosi nel 2015, non abbia mai esercitato funzioni esecutive e abbia svolto un’attività del tutto marginale nell’ambito dei lavori consiliari.

Anche gli altri rilievi sullo svolgimento della fase elettorale pure menzionati nella proposta di scioglimento non presentano carattere sintomatico, né sono stati considerati rilevanti nella relazione prefettizia.

Quanto alla presenza di legami e alle parentele tra alcuni soggetti che fanno parte dell’apparato burocratico dell’ente ed esponenti delle consorterie locali, tale evenienza non è corroborata da evidenze significative in ordine a possibili condizionamenti della loro attività nella gestione amministrativa dell’ente.

In proposito, gli atti impugnati richiamano alcune vicende, che tuttavia risultano essere travisate o solo parzialmente descritte, sicché la loro valenza, seppure in termini puramente indiziari, ne risulta compromessa.

Vengono in considerazione, anzitutto, le deduzioni svolte in ordine alle anomalie e irregolarità emerse nel settore degli appalti pubblici e di cui si sarebbero avvantaggiate anche imprese “controindicate”.

E’, in particolare, definita “emblematica” la vicenda relativa alla stipulazione di un contratto di appalto, nel febbraio del 2016, avente ad oggetto lavori di consolidamento del lungomare. Il Comune avrebbe omesso di acquisire, come richiesto dalla lex specialis, le informazioni antimafia nei confronti delle ditte subappaltatrici. Tra esse, sarebbero state presenti anche ditte “controindicate”, una delle quali ha ricevuto un provvedimento interdittivo nel febbraio del 2017. Nel corso di un sopralluogo a novembre del 2016, inoltre, sarebbe stato rinvenuto un mezzo intestato a ditte già destinatarie di interdittive antimafia.

Tuttavia, le evidenze acquisite in giudizio dimostrano che: per l’appalto in questione il Comune si era servito, quale stazione unica appaltante, della -OMISSIS-. Nella documentazione di gara era previsto l’obbligo per l’impresa aggiudicataria di trasmettere, dopo la stipula del contratto, alla -OMISSIS- l’elenco delle imprese coinvolte nel piano di affidamento, con riguardo alle forniture e ai servizi. Il Comune, dopo avere invitato l’aggiudicataria ad adempiere a tale obbligo, ricevuto l’elenco, provvedeva a trasmetterlo alla -OMISSIS-. La -OMISSIS-avvertiva in data 15 febbraio 2017 della presenza nell’elenco di una ditta colpita da interdittiva antimafia. Appena ricevuta tale notizia, il RUP presso il Comune diffidava sia l’impresa affidataria sia il Direttore dei lavori, affinché adottassero gli atti conseguenti; veniva, così, a conoscenza che l’aggiudicataria non aveva più fatto ricorso alle prestazioni della ditta colpita da interdizione.

Dato atto della presenza di una simile ricostruzione in punto di fatto, non si riscontrano comportamenti omissivi negligenti ascrivibili agli uffici comunali, che non potevano intervenire in altro modo prima della conoscenza del provvedimento interdittivo.

Va, inoltre, osservato, come nella relazione prefettizia si esprima un giudizio sostanzialmente positivo sulla gestione degli appalti pubblici da parte dell’ente comunale. Infatti, vengono richiamati i punti della relazione della Commissione di indagine, laddove si fa presente che “Relativamente agli affidamenti diretti gli stessi, limitati numericamente, sono stati eseguiti a seguito di procedure negoziate mediante invito a partecipare a più ditte e comunque entro i limiti d’importo consentiti dalle norme giuridiche” e che “vi sono poi una serie di affidamenti di incarichi di progettazione e/o direzione lavori, per i quali la normativa non richiede la certificazione antimafia, che sono stati conferiti quasi sempre a professionisti del posto attingendo dalle short list comunali ed entro la soglia consentita dai regolamenti. Non si sono rilevati affidamenti multipli ad uno stesso professionista ma è stato adottato il criterio della rotazione negli incarichi”.

Analoghi travisamenti in fatto si riscontrano in relazione alle vicende collegate alle concessioni per la gestione di stabilimenti balneari.

Vengono contestati agli amministratori dell’ente due casi di ritardata notifica di provvedimenti di revoca delle concessioni, a seguito dell’emanazione di altrettante interdittive antimafia. Dalla documentazione complessivamente presentata in giudizio, tuttavia, emerge un quadro fattuale caratterizzato dalla presenza di un notevole ritardo nel riscontro delle richieste di informazioni antimafia da parte della prefettura reggina; di contro, il Comune risulta essersi attivato celermente, appena avuto notizia delle interdittive.

In particolare, quanto allo stabilimento balneare “-OMISSIS-”, le richieste di informazioni sono state inoltrate dal Comune a partire dal 2013 e riscontrate dalla Prefettura a fine 2016, con nota del 6 dicembre 2017 protocollata dal Comune il 7 giorno successivo (cfr. il documento di cui al punto 5.5 allegato al ricorso). La revoca della concessione è stata notificata all’interessato a distanza di pochi giorni dalla ricezione della notizia dell’interdittiva, il 22 dicembre 2017.

Analoghi ritardi si riscontrano nel caso relativo allo stabilimento “-OMISSIS-”, ove l’atto di riscontro veniva acquisito al protocollo generale dell’Ente in data 29 luglio 2016 e la revoca interveniva il 27 agosto (con notifica il successivo 9 settembre).

In entrambi i casi, quindi, si osserva come non si sia tenuto conto, nell’analisi della significatività della tempistica di adozione delle revoche, dei notevoli ritardi nel riscontro delle richieste di informazioni, mentre i provvedimenti di revoca sono stati assunti entro tempi che risultano compatibili con l’espletamento di attività istruttorie medio tempore resesi necessarie.

Il provvedimento dissolutorio contiene anche ampi richiami alla materia urbanistica ed edilizia e si afferma che persone vicine alla criminalità organizzata si sarebbero avvantaggiate dell’inerzia dell’Ente nel concludere i procedimenti demolitori. La relazione prefettizia si incentra su due specifiche vicende e conclude che la loro disamina desta “dubbi in ordine ad un controllo insufficiente da parte degli organi preposti, che finisce per favorire le famiglie legate alle cosche di ndrangheta più pericolose”.

Quanto alla prima vicenda, si osserva che nello stesso provvedimento dissolutorio si dà atto che la demolizione dell’immobile, realizzato nel 2014, è stata disposta immediatamente dopo un sopralluogo intervenuto nel 2017, su impulso della stessa amministrazione comunale. Va, inoltre, rilevato che l’episodio contestato, pur considerato nel ricordato e necessario “quadro di insieme”, risulta di natura isolata e non è in grado di suffragare, anche alla luce di quanto esposto in seguito, l’assunto circa l’esistenza di un atteggiamento inerte da parte degli amministratori locali a fronte al fenomeno dell’abusivismo edilizio che ha favorito anche solo indirettamente la criminalità organizzata del luogo.

La seconda vicenda descritta nella proposta di scioglimento concerne una attività commerciale, tra i cui dipendenti sono presenti soggetti in rapporti di parentela con elementi di spicco della malavita locale, che si svolgeva in un edificio il cui ultimo piano era stato realizzato abusivamente. In realtà consta che l’opera in questione era stata oggetto nel 2010 di una ordinanza di demolizione, rimasta ineseguita, e che proprio l’amministrazione comunale disciolta, dopo poco più di un anno dall’insediamento, aveva avviato le iniziative per giungere alla rimozione dell’abuso (cfr. la delibera consiliare n. 80 del 29 dicembre 2014 e il verbale di riunione dell’8 maggio 2017 di cui all’allegato 6.21 al ricorso). Dunque, non risulta confermato l’assunto contenuto nella proposta secondo cui l’ente avrebbe omesso di compere le attività necessarie per dare concreta attuazione all’ordinanza di demolizione.

Quanto alle criticità riscontrate relativamente alla gestione dei beni confiscati, esse si incentrano sulla circostanza che un terreno sottoposto a confisca e consegnato al Comune sarebbe ancora nel possesso dell’ex proprietario. La circostanza, riportata nella proposta ministeriale, tuttavia, omette di tenere in considerazione che il fondo in questione, come si evince dalla lettura degli atti prefettizi, non poteva essere recintato né intercluso totalmente, servendo da passaggio obbligato per l’accesso ad un altro terreno comunale. Emerge, poi, dalla lettura degli atti della Commissione di indagine che il Sindaco aveva posto in essere le attività necessarie per destinare alla locale stazione dell’Arma dei Carabinieri uno dei due immobili confiscati al proprietario del fondo, non ottenendo tuttavia un riscontro alla sua richiesta.

Sono, poi, oggetto di critica l’inefficienza e il disordine amministrativo riscontrati nel settore delle occupazioni di suolo pubblico, di cui avrebbero beneficiato anche esponenti della malavita. In particolare, è contestato l’omesso controllo sulla riscossione dei tributi dovuti in caso di occupazione, di cui si sarebbe avvantaggiato anche un soggetto che gestisce un esercizio pubblico insieme a una persona contigua ad un esponente apicale della criminalità locale. Tale soggetto, inoltre, ha aperto una sala giochi ubicata in locali dati in locazione da un individuo controindicato, nei pressi di una scuola elementare.

Dalla lettura degli atti della Commissione di indagine, emerge tuttavia che in questo settore era presente in realtà, da numerosi anni, una totale inerzia riconducibile alle amministrazioni comunali precedenti, non colmata neppure nel periodo in cui l’ente era stato sottoposto ad altro commissariamento. Nel gravame, parte ricorrente ha avuto modo di dimostrare come, a fronte di precedente situazione di sostanziale paralisi, la nuova amministrazione non era restata inerte ma aveva introdotto numerose iniziative di risanamento del settore. In sostanza, la situazione censurata nei provvedimenti impugnati risulta precipuamente ascrivibile all’operato (rectius, all’omesso operato) delle precedenti amministrazioni, sicché non appare corretto ricavare da questo elemento un indice attuale sintomatico della “debolezza” e della capacità di condizionamento degli amministratori locali odierni ricorrenti, da verificare sia pure nel “quadro di insieme” sopra richiamato.

Quanto, infine, alla situazione economico-finanziaria del Comune, gli atti impugnati contengono critiche sull’incapacità di gestire in modo idoneo i residui sia attivi che passivi, che tuttavia non sono contestualizzate ai fini di dimostrare una possibile incidenza di tale fattore ai fini di una maggiore permeabilità dell’apparato amministrativo ai condizionamenti mafiosi.

Si evidenzia, infatti, che nel pur ampio ambito di apprezzamento concesso nell’applicazione dell’art. 143 Tuel rispetto alla pur riscontrata commissione di atti illegittimi da parte dell’amministrazione, è necessario un quid pluris, consistente in una condotta, attiva od omissiva, condizionata dalla criminalità anche in quanto subìta, riscontrata dall’amministrazione competente con discrezionalità ampia, ma non disancorata da situazioni di fatto suffragate da obiettive risultanze che rendano attendibili le ipotesi di collusione, così da rendere pregiudizievole per i legittimi interessi della comunità locale il permanere alla sua guida degli organi elettivi.

Ciò in quanto l’art. 143 TUEL precisa le caratteristiche di obiettività delle risultanze da identificare, richiedendo che esse siano concrete, e perciò fattuali, univoche, ovvero non di ambivalente interpretazione, rilevanti, in quanto significative di forme di condizionamento.

Da ultimo, non può essere trascurato, ai fini di una analisi sulla sintomaticità delle vicende descritte negli atti impugnati, considerate nel loro insieme, che la stessa Commissione di indagine ha avuto modo di esprimere un sostanziale apprezzamento per l’operato degli amministratori locali, giungendo ad affermare che “L’attività di competenza della Giunta e del Consiglio Comunale, letta attraverso le rispettive delibere acquisite, è apparsa invero, dinamica e propulsiva. Anche quella dei Responsabili degli Uffici (…) è risultata, nel complesso, organizzata, probabilmente anche effetto di una corretta impostazione acquisita dopo due anni di gestione dell’Ente da parte della Commissione Straordinaria nel biennio 2011-2013”.

In conclusione, alla luce delle considerazioni che precedono, il Collegio ritiene che da una lettura complessiva e non atomistica di tutti gli episodi considerati ai fini dell’adozione del provvedimento dissolutorio, tenuto conto dei ravvisati vizi di travisamento dei fatti e di illogicità nella valutazione dei presupposti, non è possibile ricavare la sussistenza di quegli elementi concreti, univoci e rilevanti, ex art. 143 cit., idonei a configurare la compromissione del buon andamento o dell’imparzialità dell’amministrazioni comunale e la presenza del condizionamento da parte della malavita organizzata”.

Insomma, la sentenza, più che smontare, demolisce tutte le ragioni alla base del decreto di scioglimento del consiglio comunale di Marina di Gioiosa.

Una considerazione finale: la sentenza di oggi non è solo un successo personale e politico per Domenico, Maria Elena, Loredana, Francesco, Giuseppe, Sisì, Daniele, Sergio e tutti quelli che si sono spesi per ridare a Marina di Gioiosa un’amministrazione comunale democraticamente eletta, compresi i consiglieri di opposizione. No, è la vittoria di un’intera comunità cittadina, che ritrova una forte ragione per esprimere il diritto all’elettorato attivo e anche – particolare non trascurabile – per ritrovare l’impegno politico e amministrativo.

E di questi tempi non è poco.