Le sue origini antichissime, hanno indispensabili principi nutritivi, venivano coltivati in Egitto e Mesopotamia, ma nell’area mediterranea sono diventati un elemento comunissimo nel nostro paesaggio e quasi identitario, infatti tantissimi calabresi davanti la loro abitazione non vogliono privarsi di una pianta di fico, non vogliono privarsi di una “ficara”.
Naturalmente stiamo parlando del fico comune, pianta xerofila , che cresce e produce , in zone mitigate subtropicali temperate , la stessa appartiene alla famiglia delle Moraceae . Nel periodo che da metà agosto ci conduce fino alla fine, da queste parti sulla locride sono ricercatissimi, sia per gustarli freschi come frutta dopo pranzo apprezzandone la loro distintiva dolcezza e bontà, sia per raccoglierli e seccarli, per preparare le classiche crocette o schiocche , dopo averli seccati ben bene, lavati e infornati, vengono “trafitti” con stecche di canne di bambù. Una sorta di rituale, un uso che non si perde, continua e anche i giovani cominciano ad apprezzare, seguendo le proprie nonne , aiutandole a tagliarli per farli seccare, esponendoli al sole cocente di Calabria. Un dolce naturale, che nell’inverno viene apprezzato nelle tradizionali cene natalizie , accoppiandoli con frutta secca , specialmente con le mandorle e le noci o anche per creare il ripieno della classiche pitte di S. Martino, dolce tipico calabrese che sulla tavola dicembrina difficilmente mancherà al calabrese doc. Dopo una calda mattinata nelle campagne dell’e
entroterra della costa jonica, il bottino e’ stato ottimo e sarà garante del sigillo alle nostre tradizioni, ai nostri usi e ci darà quella “cristallina dolcezza “di conservare la nostra identità calabrese quindi ,non resta che adoperarsi , vivere la nostra terra , addolcendosi delle sue ricchezze e dei suoi doni che solo con la cura dei nostri territori si potrà continuare ad apprezzare.
Gianpiero Taverniti
https://youtu.be/PUfZoy6SlL0