Un grande di Calabria: Totò Delfino
“Il pianto dell’asino”
Totò, eravamo nel tuo studio. Uno di fronte all’altro e dalla parete l’asino del poster mi guardava ammonitore come a dirmi “Bada a non dire asinerie”. Parlavamo del tuo ultimo libro e scherzavamo al solito, quando all’improvviso diventasti serio, triste e con una voce, ragnatelosa, e che non era più la tua, mi dicesti: “Mario, m’imbrogliano. Mi dicono che la chemio è blanda, ma io la notte mi sveglio talora sudato e talora per il freddo”.
Era la prima volta che parlavamo del terribile male che t’affliggeva. Ne restai sorpreso e, mentendo a me stesso ancor prima che a te, ti risposi: “Totò, ma che vai a pensare, nessuno t’imbroglia. Già il semplice fatto che hai tutti i capelli, ti dimostra che la chemio è davvero blanda, altrimenti li avresti persi…”. Fingesti di credermi. Ma nei tuoi occhi, nel cui fondo lampeggiava sempre un poco d’ironia, vidi che non mi credevi. Ed io capii che il protagonista di mille battaglie, l’uomo che combattendo la mafia dell’antimafia più che un giornalista era diventato un collezionista di querele, stava per lasciarci. Mi stava dicendo che faceva fatica a scrivere un articolo, lui che di articoli ne sfornava quanti ne voleva al giorno. E tutti di altissimo livello perché come scriveva Totò, e si offenda chi vuole perché non me ne importa niente, non scriverà più nessuno.
Quegli articoli in cui ne sentivi l’entusiasmo e la partecipazione. Quegli articoli che ne denotavano la non comune cultura svariante dal classicismo alla modernità, quegli articoli che ti coinvolgevano, no, non li scriverà più nessuno. E ci mancheranno. Terribilmente. Perciò, Totò, io sono convinto che non sei morto nel momento in cui hai esalato l’ultimo respiro. No, sei morto nell’attimo in cui non hai più potuto scrivere. Lasciamo perdere, vuoi?, lasciamo perdere.
“Sono nato sull’Aspromonte e fui cullato dal mormorio sommesso della fiumara che scorreva dolce e lenta, incassata nella roccia, a pochi passa da casa. Mia madre mi allevò con latte di capra… E quando comparvero le prime febbri melitensi mi curarono con latte di asina, per cui provo per l’asino un affetto fraterno. Da fratello di latte.”
Totò, io non so se gli asini piangano o meno, ma quello della dedica che m’hai scritto nel tuo ultimo libro, “A Mario Nirta, con un raglio prolungato e la stima di sempre”, non ha ancora smesso di singhiozzare: per quanto asino, sa che nessuno ne canterà mai le lodi come hai saputo fare tu. Appunto “da fratello di latte”. E da buon asino, qual mi ritengo, vorrei dirti che piango anch’io. Ma non te lo posso confessare perché sconfinerei in quella retorica che hai sempre detestato e mi toglieresti “la stima di sempre”. Ed è un rischio che non voglio correre.
Vedi, Totò, tornando alle righe citate sopra, penso che pochi scrittori, che ne so, un Manzoni, un Tomasi di Lampedusa, o uno Sciascia, avrebbero potuto leggerle senza provare invidia. Ma noi comuni mortali la proviamo e come, anche perché se appena appena tentiamo d’imitarti, approdiamo a risultati semplicemente penosi. Comunque, pur avendoti eletto a mio Nobel personale, non è l’autore di “Gente di Calabria”– da me ritenuto insieme ad “Amo l’Aspromonte” il tuo capolavoro – che intendo celebrare, perché quest’autore fu sì grande, ed addirittura immenso in certi casi, ma non quanto l’uomo Totò Delfino, che fu impareggiabile. E che fra i tanti eunuchi della nostra cultura, di questa cultura che non lo meritava e non lo merita, fu uno dei pochi dotato di straripanti attributi. Un ultimo abbraccio, Totò, grazie per tutto ciò che ci hai dato, e ti sia lieve la terra.
Articolo di Mario Nirta tratto dal sito www.pinocarellachannel.it