L’ex sindaco di Siderno, Pietro Fuda, non potrà ricandidarsi. È quanto hanno stabilito i giudici del Tribunale civile di Locri, che hanno invece “graziato” l’ex consigliere di maggioranza Giuseppe Figliomeni, la cui vicenda, però, è sintomatica, secondo i giudici, del livello di interessamento delle cosche alle elezioni comunali di Siderno. Un interesse che, stando alla Dda di Reggio Calabria, rimane uguale a se stesso da almeno 50 anni, come dimostrato, su tutte, dall’operazione antimafia “Falsa politica”. Ma a farne le spese, oggi, è soprattutto l’ex senatore Fuda, recentemente finito sotto i riflettori dopo aver ricevuto un avviso di conclusione delle indagini con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la Dda, Fuda avrebbe consentito alla ‘ndrangheta di assumere «una posizione di influenza» nel Comune reggino, «promuovendo e consentendo la nomina a presidente del consiglio comunale di Paolo Fragomeni», legato «da vincoli di parentela con la famiglia di ‘ndrangheta dei Commisso intesi i “Quagghia”». Elementi che erano emersi nel corso dell’indagine “Acero-Krupy” e confluiti, successivamente, in un’ulteriore indagine, che ha di fatto portato allo scioglimento del Consiglio comunale. Un quadro confermato anche dai giudici del Tribunale civile, che nella loro sentenza hanno delineato «un complessivo quadro di anomalie ed irregolarità nell’agire amministrativo, che si è concretizzato anche nel favorire soggetti o aziende riconducibili ad ambienti controindicati». A Fuda i giudici contestano «l’obiettiva sovraesposizione dell’istituzione locale alle pregiudizievoli richieste di un ambiente connotato dalla pervasività di consorterie di tipo mafioso», circostanze già evidenziate nella relazione del ministro dell’Interno allegata al decreto di scioglimento del Consiglio comunale. Elementi, si legge nella sentenza, non smentiti dai documenti presentati dalla difesa dell’ex sindaco, «con particolare riferimento a quel coacervo di situazioni che, considerate sia separatamente che nel loro complesso, esprimono l’idea di un agire amministrativo di fatto rivolto all’elusione sostanziale delle regole poste a presidio della legalità e in particolare a tutela della comunità civile da infiltrazioni mafiose nella gestione della res pubblica».

“L’assoluzione” di Figliomeni.

Per i giudici, sarebbe proprio Giuseppe Figliomeni «il soggetto che, più degli altri politici eletti nel 2015, alcuni dei quali a loro volta sono legati da vincoli di parentela di diversa intensità con esponenti delle principali consorterie criminali, ha suscitato l’interesse della cosca Commisso». Dato emerso, infatti, da un’intercettazione captata nell’operazione “Acero-Krupy”, registrata all’interno di un’auto usata da Commisso Cosimo (cl. 1969), dalla quale emergeva che Commisso Antonio, «e di conseguenza l’intera “famiglia” Commisso, appoggiava elettoralmente la candidatura a consigliere di Giuseppe Figliomeni nella lista “Centro Democratico” che sosteneva quale candidato a sindaco Pietro Fuda. A tale “suggerimento”, l’interlocutore rispondeva accondiscendendo senza riserve, poiché, riportando letteralmente: “quello che dice lui facciamo”». Un dato che, unito al successo elettorale di Figliomeni e al suo grado di parentela con Vincenzo Figliomeni, ammanettato nell’ambito dell’operazione “Bacinella”, «ha condotto ad estrapolare, tra tutte le posizioni “sospette”, oltre al sindaco, quella del Figliomeni». Ma sebbene sia «di tutta evidenza che l’appoggio di cui ha goduto il Figliomeni non è un appoggio qualsiasi», bensì riconducibile ad uno scenario «allarmante», caratterizzato «da un capillare intreccio di interessi illeciti e da pervasive forme di ingerenza della criminalità organizzata nell’azione amministrativa», non è comunque possibile desumere, dagli atti del procedimento, «delle condotte, successive alle elezioni, specificamente ascrivibili al Figliomeni, che siano causalmente connesse allo scioglimento del Consiglio comunale e tali da giustificare la declaratoria di incandidabilità del medesimo».

La campagna elettorale.

Il periodo precedente alle elezioni è stato caratterizzato dall’intimidazione ai danni di Pier Domenico Mammì, candidato del Partito democratico per le primarie della coalizione del centrosinistra, che dopo aver trovato sulla sua auto una busta con cinque proiettili e una tanica di benzina ha deciso di non prendere più parte alla competizione, «aprendo la strada alla candidatura a sindaco di Pietro Fuda». Un’intimidazione seguita da quella all’attuale assessore regionale Maria Teresa Fragomeni, inizialmente parte dell’area di maggioranza a sostegno di Fuda, ma poi transitata, a giugno 2016, nel gruppo misto, contrastando fortemente la linea del presidente del Consiglio comunale Paolo Fragomeni, «legato da rapporti di parentela, sebbene non prossima, con esponenti dei Commisso di Siderno intesi i “Quagghia”». Una carica, quella ottenuta da Paolo Fragomeni, che aveva provocato le prime forti polemiche tra l’omonima dem e il sindaco, che aveva preferito Paolo Fragomeni nonostante il maggior numero di voti ottenuto da Maria Teresa Fragomeni alle elezioni. «Questi elementi – scrivono i giudici – sono indicativi della genesi e dell’evoluzione dell’amministrazione comunale e contribuiscono a fornire una chiave di lettura di una serie di accadimenti di cui ora si dirà in relazione alla posizione del sindaco».

La posizione di Fuda.

Ad incidere sulla pronuncia di incandidabilità è soprattutto «la gestione non regolare del settore nevralgico dei lavori pubblici», che, come evidenziato dalle inchieste “Saggezza” e “Morsa sugli appalti”, ha suscitato storicamente gli appetiti della cosca dominante. La gestione di tale settore «ha finito, direttamente o indirettamente, con il favorire gli interessi della criminalità organizzata», affermano i giudici. E la responsabilità «non può che imputarsi al sindaco», sia per il potere «di sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici ed all’esecuzione degli atti, potere che lo rende pienamente responsabile del risultato finale dell’amministrazione», sia per l’assenza di un assessore con delega specifica ai lavori pubblici. Uno dei punti dolenti riguarda il campo degli affidamenti diretti, «adottati significativamente» e sintomo «di una gestione frammentaria e disorganizzata del potere pubblico». Ma anche poco trasparente, secondo i giudici, secondo cui la cartina al tornasole delle modalità dell’agire dell’amministrazione Fuda «è costituita proprio dal cospicuo numero di affidamenti diretti sempre alle stesse ditte, alcune delle quali colpite da provvedimenti di interdittiva alla partecipazione alle gare pubbliche per collegamenti con la criminalità organizzata». Diversi i casi, come quello di una ditta d’appalti, già nel 2012 destinataria di interdittiva antimafia «e che ciò nonostante ha per l’appunto ricevuto una pluralità di affidamenti diretti, non preceduti da alcuna richiesta di certificazione antimafia alla Prefettura di Reggio Calabria» o quello di altra ditta, con nove affidamenti in poco più di un anno per interventi omogenei tra il 2016 e il 2017, società destinataria di interdittiva ad ottobre 2013 ma per la quale non è mai stata richiesta l’informativa antimafia, se non qualche giorno prima dell’insediamento della Commissione d’indagine.  Una gestione che per i giudici rappresenta il sintomo «di un agire del sindaco e dell’intero ente connotato dalla totale assenza di cautele a sostegno della legalità, con conseguente svilimento e la perdita di credibilità dell’istituzione locale».

Simona Musco -newz.it