Si tratta di «forme e condizioni particolari di autonomia» che, secondo l’articolo 116 della Costituzione, possono essere concesse alle regioni che ne facciano richiesta. Le materie sono quelle oggetto di legislazione concorrente tra Stato e regioni. Si tratta delle ventitré materie elencate dall’articolo 117 (terzo comma) della Costituzione, tra cui: istruzione; tutela della salute; ricerca scientifica e tecnologica; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; energia; previdenza complementare e integrativa; valorizzazione dei beni culturali e ambientali; casse di risparmio e casse rurali. A queste si aggiungono altre tre materie (previste dal secondo comma dell’articolo 117), su cui lo Stato ordinariamente detiene l’esclusiva della legislazione: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Perché nel 2001 è stato modificato il Titolo V della costituzione che, all’art. 116, prevede che le regioni possano richiedere ulteriori forme di autonomia?

Nella seconda metà degli anni Novanta, si era rafforzata la Lega Nord con il progetto secessionista della Padania indipendente. Nel 1997 venne addirittura creato un Parlamento della Padania. Era diffusa l’idea – sostenuta dalla Lega – che il Sud drenasse risorse dal Nord produttivo. Di fronte all’avanzata leghista, per i partiti di centro-sinistra c’era un problema di consenso politico nel settentrione del paese. Tali spinte accelerarono la tendenza politica già in atto verso il decentramento amministrativo. Nel 1999 venne varato il programma di revisione costituzionale (D’Alema-Amato) contenente spunti fondamentali per la revisione del Titolo V della Costituzione che, tra l’altro, riguarda le Regioni. La riforma del Titolo V venne approvata nel 2001 dal Parlamento con maggioranza di centrosinistra.

Dal 2001 ci sono stati ulteriori passaggi verso l’autonomia differenziata?

Ricordiamo che nel 2017 in Lombardia e Veneto si sono tenuti dei referendum consultivi aventi come oggetto l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle due regioni. Nel 2018, il Governo Gentiloni – anche questo di centrosinistra – approvò delle intese preliminari con Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto contenenti richieste di forme particolari di autonomia in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, sanità, istruzione, lavoro, rapporti internazionali e con l’Unione europea. Le tre regioni si sono riservate la possibilità di estendere il negoziato ad altre materie. Dal 2018, si sono susseguite altre iniziative fino a giungere al disegno di legge «Calderoli», approvato dal Senato il 23 gennaio 2024.

Cosa prevede il disegno di legge Calderoli?

Il disegno di legge definisce i principi generali per l’attribuzione alle regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dall’articolo 116 della Costituzione, nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese tra lo Stato e le singole regioni interessate. In sintesi, l’iter prevede uno «schema d’intesa preliminare» negoziato tra il governo e la Regione che chiede l’autonomia rafforzata. Lo schema d’intesa è approvato dal Consiglio dei ministri e su di esso esprimono un parere la Conferenza unificata (i rappresentanti delle autonomie locali) e le competenti commissioni parlamentari con «atti d’indirizzo». Si torna quindi al Consiglio dei ministri, che delibera sullo schema definitivo dell’intesa (dopo un ulteriore negoziato con la Regione, se necessario) allegandolo a un apposito disegno di legge di approvazione. Questo disegno di legge viene trasmesso alle Camere per l’approvazione a maggioranza assoluta.

La legge stabilisce che l’attribuzione di ulteriore autonomia alle Regioni è consentita subordinatamente alla determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) previsti dalla Costituzione. Dovrà, quindi, essere stabilito il livello minimo di servizi da rendere al cittadino in maniera uniforme in tutto il territorio nazionale. Inoltre, per evitare squilibri economici tra le regioni, il disegno di legge prevede misure perequative, cioè risorse aggiuntive anche per quelle che non richiedono maggiore autonomia.

Cosa rischiano le regioni del Sud con l’autonomia differenziata?

Con l’aumento delle competenze, le regioni del Nord tratterranno una percentuale maggiore dei tributi riscossi nel proprio territorio. Di conseguenza, il rischio è che diminuiscano le risorse che vanno allo Stato per erogare i servizi anche alle regioni meridionali che, essendo meno sviluppate, hanno minore capacità fiscale. Come accennato, il disegno di legge prevede misure di riequilibrio territoriale. Ciononostante, con l’aumento delle competenze in capo alle regioni, si avranno differenze nei modelli organizzativi e gestionali regionali che si tradurranno inevitabilmente in livelli diversi dei servizi. Tali differenze, che potrebbero accompagnarsi anche con quelle nelle retribuzioni del personale addetto ai servizi stessi, accentuerebbero le già consistenti migrazioni dal Sud verso il Nord. In sostanza, il rischio concreto è che con l’autonomia differenziata aumentino i divari regionali nei servizi pubblici e, dunque, anche quelli economici.

Ma con i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) non si eviteranno disparità nei servizi?

I Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), che ad oggi sono stati stabiliti solo per la sanità e per alcune prestazioni sociali, indicano uno standard minimo dei servizi essenziali da erogare, in modo uniforme, su tutto il territorio nazionale. Secondo il disegno di legge Calderoli, le materie su cui devono essere definiti i Lep sono quattordici e riguardano anche i «diritti fondamentali di cittadinanza», come istruzione, sanità, tutela del lavoro. Il trasferimento delle funzioni alle regioni in tali materie, può avvenire soltanto dopo la determinazione dei Lep stessi e dei relativi costi e fabbisogni standard. Sebbene ciò sembri offrire una garanzia di omogeneità su tutto il territorio nazionale, almeno a un livello di base, dei servizi pubblici, i Lep non eliminano il rischio di differenze di fatto.

Essendo basati su indicatori misurabili (esempio, numero di utenti o quantità di un dato servizio), è possibile che, in qualche caso, i Lep non assicurino la qualità delle prestazioni erogate o che, in altri casi, non siano in grado di definirne i contenuti, stante l’impossibilità di misurarne ogni aspetto. Inoltre, in molti ambiti, a partire dalla sanità e dai servizi sociali, i livelli delle prestazioni sono già molto diversi tra Nord e Sud, per cui sarebbe necessario colmare preliminarmente i divari. Ciò richiederebbe ingenti risorse (attualmente non disponibili) e molto tempo. In ogni caso, se anche i Lep fossero definiti e rispettati, l’autonomia differenziata, in quanto tale, determinerà differenze nell’organizzazione, nella gestione e nel finanziamento di servizi di grande rilevanza per i cittadini come la scuola, la sanità e i trasporti.

Ci sono fondate ragioni economiche per l’attribuzione di forme di autonomia differenziata alle Regioni?

No, almeno non per tutte le materie. I beni e servizi pubblici che più si prestano al decentramento sono quelli locali, che producono benefici territorialmente delimitati (esempi: una diga, l’illuminazione pubblica, la viabilità locale). Non c’è alcuna ragione stringente per aumentare il decentramento nella sanità, nell’istruzione, nelle grandi reti di trasporto o nella produzione e distribuzione nazionale dell’energia. Anzi, ci sono buone ragioni per sostenere che tali servizi dovrebbero essere gestiti dallo Stato.

 È vero che con questa riforma le regioni del Sud diventeranno più efficienti nella gestione delle risorse e nell’erogazione dei servizi?

Non c’è alcun motivo fondato per pensare che le regioni meridionali diventeranno più efficienti, considerato che l’efficienza nell’erogazione dei servizi dipende dal personale delle pubbliche amministrazioni, tenendo conto delle risorse disponibili. Se, poi, ci si riferisce ai politici non è affatto scontato che la concessione di maggiore autonomia contribuisca a selezionare politici più capaci, anche in considerazione del fatto che, con l’attuale legge elettorale, i candidati alle elezioni politiche e regionali sono sostanzialmente indicati dalle segreterie nazionali dei partiti.

Secondo alcuni, con l’autonomia differenziata, i cittadini potranno valutare meglio l’operato dei politici che li rappresentano, non rieleggendo quelli che si dimostrano incapaci. Ma ciò, evidentemente, sarebbe possibile anche senza autonomia differenziata. Non si capisce come l’autonomia possa rendere efficace tale «meccanismo sanzionatorio» che finora, pur a fronte di macroscopiche carenze nei servizi, non sembra aver funzionato.

* Prof. VITTORIO DANIELE (Università degli studi di Catanzaro)

Fonte : www.opencalabria.it

ripreso dal sito www.telemia.it