ROMA – Negli anni ’70, in alcune maternità italiane, la nascita di un figlio poteva trasformarsi nel dolore più profondo e inspiegabile: bambini dichiarati morti subito dopo il parto, senza un corpo da piangere, senza un funerale, senza una spiegazione. Le madri li avevano visti nascere vivi. Poi, più nulla. Solo certificati, racconti vaghi, un dolore immenso e una verità negata e spietata.
Un caso emblematico, quello dei gemelli di Cutro, ha aperto uno squarcio su una realtà che sembrava sepolta per sempre: creature strappate con l’inganno ai genitori biologici. Un’inchiesta giornalistica di portata nazionale ha fatto emergere che quello non era un caso isolato. A condurla Roberta Spinelli, giornalista d’inchiesta che ha saputo mettere in fila indizi e documenti su voci rimaste per decenni nell’ombra, fino a ricostruire un vero e proprio sistema. Uno scoop che sottolinea, ancora una volta, la fondamentale importanza del Servizio Pubblico che non può limitarsi ai salotti nei quali i soliti noti si parlano addosso. Servizio Pubblico che, attraverso inchieste e approfondimenti, la Rai dimostra di curare sempre più mettendo in campo professionalità che tengono alto il nome del giornalismo italiano.
L’inchiesta, realizzata per il programma “Storie di sera”, condotto da Eleonora Daniele e in onda su Rai Uno, parte dalla Calabria ma arriva fino a una grande città del Centro-Nord, dove le trame si infittiscono. Decine di testimonianze raccolte sul campo parlano di bambini nati vivi e dichiarati morti poco dopo.Di madri giovanissime, spesso sole, spesso vulnerabili. Di famiglie che ancora oggi, dopo cinquant’anni, si chiedono se quei figli, sorelle, fratelli, siano davvero morti. E di alcune risposte, finalmente arrivate: tra i casi indagati, ci sono anche bambini che oggi sono adulti, adottati probabilmente dietro pagamento, inseriti in un circuito parallelo che potrebbe essere stato coperto da silenzi e complicità.
L’inchiesta ha dimostrato che quello dei gemelli non era un caso isolato. Al contrario, ha portato alla luce i contorni di un possibile sistema sommerso, capace di approfittare di nascite complicate, strutture sanitarie all’epoca forse prive di strumenti adeguati di controllo, e un tessuto socio-economico segnato da forte precarietà.In molti casi, alle madri giovanissime, prive di supporto, disorientate, venivano fornite versioni confuse, mai accompagnate da una salma o da un rito. Una condizione di fragilità che le rendeva più esposte a pressioni, omissioni o racconti che non sempre corrispondevano alla realtà dei fatti.
Roberta Spinelli ha ricostruito con serietà, rigore e, soprattutto, grande umanità come potevano verificarsi queste pratiche opache: è emerso un meccanismo articolato che probabilmente permetteva di far uscire i neonati dagli ospedali con un’identità diversa.Il parto veniva inserito nella cartella clinica di una donna che non era la madre biologica, mentre alla vera madre – spesso stremata e confusa – veniva detto che il bambino era morto. Il piccolo veniva così registrato come nato morto o deceduto subito dopo il parto.
Ma c’era un altro livello, ancora più inquietante, che emerge dalle testimonianze raccolte, tra cui quella di un’ostetrica che negli anni ’70 lavorava proprio nell’ospedale di Crotone e che nel suo racconto ha fornito alla giornalista il tassello mancante, quello che potrebbe aver regolarizzato queste sottrazioni. Si trattava di fogli fatti firmare o firmati a insaputa delle mamme con questa formula: «Ha partorito un bambino da una donna che non vuole essere nominata». Quel foglio serviva a cancellare formalmente la madre biologica, attribuendo la rinuncia al neonato. In questo modo il bambino poteva entrare legalmente nel circuito delle adozioni.
Secondo le ricostruzioni, era il Comune stesso a prelevare il neonato e a trasferirlo a Catanzaro, dove la pratica adottiva veniva completata. Nei casi affrontati è ipotizzabile che venisse messo in atto questo sistema a insaputa della alla madre biologica alla quale veniva detto che il bambino doveva essere portato a Catanzaro per ricevere cure urgenti, perché a Crotone non c’era l’incubatrice. Poco dopo, arrivava la notizia della morte. Nessun corpo, però, veniva mostrato.
Ma l’inchiesta non si è fermata alle vittime. L’inviata della Rai è riuscita a raccogliere testimonianze preziose. Una ex ostetrica di un ospedale del Centro Italia ha raccontato di aver intuito, già all’epoca, l’esistenza di un possibile racket dei neonati, come lo definisce lei stessa. Qualcuno se ne accorse e per tale motivo è stata sospesa dal servizio e sottoposta a visita psichiatrica. Una misura che l’ha colpita profondamente, isolandola.“Avevo capito troppo”, racconta oggi. Come lei, forse altri, che però hanno preferito tacere. Lei ha pagato un prezzo altissimo, ma ha scelto di rompere il silenzio e di raccontare una verità che per anni è rimasta sommersa.
In quello stesso ospedale, il 18 settembre del 1970 si è verificata un’altra vicenda simbolica: una giovane madre ricevette una bara bianca chiusa, contenente — secondo quanto dichiarato — la sua neonata appena morta e un certificato di morte. Non le fu concesso di vederla.
Decenni dopo, grazie alla tenacia della nipote e a una ricerca sui social, la verità è emersa: la bambina era viva. Era stata adottata. E ha potuto finalmente riabbracciare la madre biologica dopo 50 anni.
Un lavoro coraggioso ma soprattutto rispettoso. Rispettoso del dolore delle madri, delle loro famiglie, della dignità di chi per cinquant’anni ha vissuto con una ferita aperta e con la domanda mai sopita: «Mio figlio è davvero morto?».
L’inchiesta – al centro della prima e soprattutto dell’ultima puntata di Storie di sera – ha attirato l’attenzione della Procura di Crotone, da dove tutto è partito. Non più solo sospetti, ma testimonianze, nomi, documenti. Una rete che si sta ricostruendo, pezzo dopo pezzo. E ciò che sembrava un sospetto isolato comincia a delinearsi come una rete più ampia e strutturata. L’inizio di un percorso difficile, ma necessario per portare alla luce una verità atroce, inumana, inaccettabile.
Perché anche dopo cinquant’anni, ogni figlio ha diritto alla verità. E ogni madre, al suo dolore. Raccontato con rispetto. Ascoltato con giustizia. Grazie alla straordinaria professionalità di una giornalista d’inchiesta di cui la Rai può andare fiera: Roberta Spinelli. (giornalistitalia.it)