MESSA CRISMALE2016

Gerace – Cattedrale

Omelia

Carissimi confratelli,

carissimi religiosi e religiose, diaconi e seminaristi,

cari fratelli e sorelle,

È sempre con tanta partecipazione, anche emotiva, che viviamo questa celebrazione della Messa crismale. La viviamo desiderando cogliere la profondità e bellezza del ministero sacerdotale. “Canterò per sempre l’amore del Signore”. Con queste parole del Salmo 88 esprimiamo sentimenti di gioia e di gratitudine al Signore per quanto ci ha donato. Siamo qui tutti insieme come in un Cenacolo, per riandare alle origini del nostro essere «un regno di sacerdoti». Chissà quante volte abbiamo sentito questa frase. Conoscendo le tante difficoltà del nostro ministero, ho paura che una frase come questa (siamo «un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre») possa lasciarci indifferenti. Eppure la realtà espressa segna la differenza tra quello che stiamo vivendo e un qualsiasi altro raduno di persone. Siamo qui, non solo per esprimere l’unità della nostra chiesa locale e del suo presbiterio, ma soprattutto per annunciare che il nostro sacerdozio – il sacerdozio universale di tutti i battezzati, al servizio del quale è destinato il sacerdozio del vescovo e dei presbiteri e il ministero dei diaconi – è il sacerdozio di Cristo. La missione di Cristo è la nostra missione, la missione che la nostra Chiesa particolare è chiamata ad attuare nel territorio della Locride. Se siamo consapevoli dello strettissimo legame con Gesù, senza il quale serviamo davvero a poco, con un sempre rinnovato stupore ci spingeremo a fare della nostra, una vita sempre più somigliante a quella di Gesù.

Fra breve parteciperemo alla consacrazione degli oli santi, con cui nel corso dell’anno eserciteremo come operatori di misericordia l’azione salvifica di Cristo. Con la benedizione degli oli esprimiamo visibilmente l’unità della nostra chiesa locale e del nostro presbiterio intorno al vescovo; esprimiamo la consapevolezza che la chiesa è realtà sacramentale, che si edifica attraverso questi umili elementi presi dalla natura ma assunti dalla grazia a segno e strumento del mistero di Cristo. Il simbolo principale è quello dell’unzione con l’olio. E’ l’olio  che medica le piaghe e dà vigore, l’olio della preghiera e della vigilanza, l’olio della consacrazione dei sacerdoti, l’olio profumato versato da Mosè sul capo di Aronne; è infine l’olio dei re, che dà nome al Messia, l’Unto. Insieme a voi, carissimi confratelli, benedirò questi oli. Benedicendo l’olio degli infermi, preghiamo il Signore, perché “quanti riceveranno l’unzione ottengano conforto nel corpo, nell’anima e nello spirito, e siano liberati da ogni malattia, angoscia e dolore”. Benedicendo l’olio dei catecumeni chiediamo al Signore che conceda energia e vigore ai catecumeni, per comprendere il Vangelo di Cristo, assumere con generosità gli impegni della vita cristiana e gustare la gioia di rinascere e vivere nella Chiesa. Benedicendo il Crisma, olio impreziosito del profumo del bergamotto, soave unguento della nostra terra, chiediamo al Signore che quanti con esso saranno unti siano interiormente consacrati e partecipi della missione di Cristo. Della consacrazione nello Spirito ha urgente bisogno la nostra società e ciascuno di noi in questo nostro tempo difficile: c’è bisogno di fasciare le piaghe dei cuori spezzati, di consolare gli afflitti di Sion, di dare una corona invece della cenere, e olio di letizia invece dell’abito da lutto, canto di lode invece di cuore mesto.

Siamo noi chiamati a far uso di questi oli profumati. Noi chiamati ad essere dispensatori dei sacri misteri. Quale alta missione ci attende! Il teologo Hans Kung alcuni anni fa scriveva un libro intitolato provocatoriamente “Il prete, a che serve?”. Voleva mettere in evidenza la percezione di inutilità che molti avevano del ministero presbiterale in una società in via di secolarizzazione, ove la funzione sacerdotale era considerata fuori tempo, a meno che non si svolgesse sul piano di un servizio sociale. Passato quel momento, che faceva registrare molti abbandoni, il senso di inutilità continua a persistere nell’animo di tanti alle prese con le esigenze di un ministero, che appaiono sempre più elevate. Permane una percezione di inefficacia, quando si avverte che il nostro linguaggio non è più compreso e il nostro insegnamento non è più ascoltato, che si è avvicinati solo quando si espletano delle funzioni suppletive di carattere sociale. Gli stessi appelli di papa Francesco alla conversione pastorale, ad essere cioè animatori di una chiesa in uscita, a dare priorità alla missione, anziché alla conservazione, ritenuti come irrealizzabili, finiscono con l’accrescere un senso di scoramento. Ecco allora il bisogno di ricordarci che all’origine della vocazione sacerdotale c’è Gesù. E’ l’intima unione con Lui la radice vera dell’essere sacerdotale. E “se Gesù è grande, essere prete è bello”. E’ il titolo di un libro del vescovo Luciano Monari, che aiuta a riscoprire la bellezza del ministero presbiterale. “Essere prete è bello”, perché “significa operare in persona Christi, donare alla gente le sue parole, permettere loro di sperimentare la sua azione di guarigione, di toccare la sua carne e fare così esperienza di salvezza”. Poche “professioni” sono così orientate al bene degli altri come quella del sacerdote. Noi siamo maestri ed educatori, seguendo il Vangelo e le Scritture come “legge di vita”. Siamo medici ed infermieri, perché esercitiamo il mistero della guarigione integrale curando la vita interiore. Noi siamo per portare la salvezza che viene da Cristo, liberando l’uomo dai vincoli e dalle dipendenze dei suoi peccati. Donando il perdono, siamo operatori di speranza. Quando Cristo e la Chiesa sono veramente presenti in noi, la nostra vita è ricca di senso. Non così, se l’evidenza di questa presenza si eclissa. Infatti gran parte delle difficoltà che sperimentiamo nel nostro essere preti dipende dalla scarsa consapevolezza del valore del ministero. Siamo preti non per offrire determinate prestazioni a richiesta e per svolgere una semplice professione. Lo sappiamo bene: ripugna alla nostra sensibilità ridursi a “professionisti del sacro”. Corriamo il rischio che tutto sia volto a soddisfare una serie di bisogni, in qualche modo anche religiosi, che però non sono specificamente legati a Gesù e al Vangelo. A questo e solo a questo si riducono tante richieste di riti di passaggio per solennizzare certi momenti della vita, come la nascita, l’adolescenza, il matrimonio, la morte. A questo e solo a questo si riduce tante volte, ad esempio, la richiesta che deriva dal bisogno di aggregazione e di attività da parte di giovani che mancano di altri spazi o di altre figure di riferimento. Fra le tante persone che vengono da noi dalla mattina alla sera, quanti sono quelli che vengono semplicemente per sentirci parlare di Gesù, o del senso della vita, dei grandi interrogativi dell’uomo, dei problemi della coscienza? Quanti i giovani, gli adulti vengono affamati ed assetati della Parola? Se ad “un professionista del sacro” basta compiere semplicemente i gesti religiosi richiesti, per noi invece tutto si gioca sulla capacità di trasmettere il contatto che abbiamo con Cristo, cioè la freschezza della nostra relazione con Lui. Un’esigenza del genere presuppone che la relazione con Gesù sia fondamento del nostro essere ed agire. Siamo sacerdoti veri perchè appassionati di Cristo e testimoni del suo amore per noi. Diversamente non ci sarebbe motivo di rinunciare ad una famiglia, ad una carriera, alle ricchezze, alla gestione di un potere economico, alla ricerca di affermazione personale. Quando siamo veramente uniti a Gesù, quando diventa valore irrinunciabile la nostra amicizia con Lui, il nostro ministero e stile di vita sono credibili e ben fondati. Per questo, per nessun altra ragione sarei disposto a fare quello che faccio per Gesù. Lui mi ha conquistato ed io mi sono lasciato conquistare.

La cartina di tornasole dell’autenticità della relazione con Gesù è data dall’amore e dalla passione per il ministero ricevuto, ma anche dalla sincera partecipazione alle sofferenze della propria gente, alle sue fatiche e stanchezze. Quest’assunzione di responsabilità è la prima garanzia che siamo col Signore, pastori come Lui lo è stato. E’ segno di debolezza disinteressarci dei problemi comuni, delle emergenze del territorio, dei bisogni dei più poveri. Dobbiamo portare davanti a Dio nella preghiera questi problemi. E’ quanto è chiesto a Mosè: “Tu stai davanti a Dio in nome del popolo e presenta le questioni a Dio” (Es 18,19). Se siamo pronti a presentarci al Signore ogni giorno, non possiamo chiudere gli occhi né tanto meno le mani.

In questa prospettiva prende piega il progetto “Casa San Luigi” presso il Seminario vescovile. Uno spazio di accoglienza dei familiari dei detenuti della casa Circondariale e dei familiari degli ammalati del vicino Ospedale. Una risposta concreta al grido di aiuto ed al disagio di quanti per motivi diversi vivono nella sofferenza. Anche la Casa del Pellegrino e del migrante presso il Santuario diocesano dei Santi Medici in Riace, che sarà a breve disponibile dopo i lavori di restauro, sarà una casa di accoglienza del pellegrino, ma anche dei fratelli migranti. Presso la Bennati sta per sorgere una Casa famiglia in collaborazione con la Papa Giovanni XXIII, per accogliere ragazze madri o donne in difficoltà. Sono iniziative che affido alla vostra preghiera e alla sensibilità e carità pastorale di tutti voi ministri della misericordia. Dobbiamo vincere la tentazione dell’imperante individualismo e di una mentalità troppo arroccata sul proprio io. Divenire operatori di misericordia, ma anche di pace e di riconciliazione è il percorso da seguire.

Ma vorrei richiamare la riflessione su un altro rischio che corre la vita di un sacerdote: assuefarsi allo stile del single. E’ lo stile dell’adulto che abita solo in una casa col massimo di libertà nell’uso del suo tempo, nelle sue scelte di vita al di fuori degli orari e degli atti dovuti per esigenze lavorative. Dietro l’esperienza delsingle, sappiamo, si cela una ideologia ed una visione della vita che non può essere la nostra. E’ una visione che privilegia la massima libertà nell’organizzazione del proprio tempo e delle proprie attività, che vede le relazioni con gli altri come inevitabili, a volte gradevoli, altre volte meno, ma da mantenere sempre dentro un’autonomia di fondo. Nessuno può infastidirci, specie in certi orari. E se c’è una chiamata urgente o qualcuno o qualcosa interferisce sui nostri programmi, si urta la suscettibilità. Diventano opzionali i momenti comunitari, siano essi i ritiri o gli esercizi spirituali o altre attività pastorali. E quando il dialogo si fa difficile o viene del tutto a mancare, quando non si prega insieme, non ci si perdona, si snobbano gli incontri, è inevitabile che la vita del presbiterio scada. Di grande attualità per noi è l’insegnamento del decreto sul ministero e la vita sacerdotale PO (Presbyterorum ordinis):Nessun presbitero è in condizione di realizzare pienamente la propria missione se agisce da solo e per proprio conto”. Devo però ringraziare il Signore per l’impegno che ciascuno pone di fronte alla tentazione dell’isolamento. Vedo tanta buona volontà e disponibilità a collaborare, ma anche tanta comprensione verso di me e le mie fragilità. Avverto in tanti sacerdoti una grande libertà interiore, che consente di accettare per il bene della chiesa proposte di cambiamenti, evitando che l’esercizio del ministero nella stessa parrocchia si prolunghi per troppo tempo. Questa disponibilità è dono dello Spirito.

Carissimi confratelli,

non dimentichiamo che unendoci a Cristo per tutta la vita,  siamo chiamati a diventare servi senza condizioni. Chi ‘rappresenta’ Cristo, nel senso che lo rende presente, sa che lo ‘rappresenta’ nel servizio che Egli svolge, cioè nel ‘lavare i piedi’. E quindi non può agire come i capi delle nazioni, bensì come “il Figlio dell’uomo che è venuto non per essere servito, ma per servire” (Mc 10, 44-45).

Mentre ci avviamo a rinnovare il sacrificio di  Cristo, ricordiamo i nomi e i volti dei confratelli che dalmercoledì santodelloscorsoannoci hanno lasciato (don Giuseppe Barbaro, don Gioacchino Bonfà). Li accogliamonella preghiera, una preghiera nutrita dalla speranza che hanno trovato il loroposto nel banchetto imbandito dal Padre per i servi fedeli.

Ringraziamo Gesù, per i confratelli che vivono un anniversario giubilare della loro ordinazioned. Sergio Chistè (65° anniv.),d. Giuseppe Zangari (65° anniv.), d. Filippo Polifroni (60° anniv.),d. Cornelio Femia (50° anniv.), p. Francesco Perico (45° anniv.), p. Salvatore Monte (25° anniv.), p. Francesco Carlino(25° anniv.), d. Bruno Cirillo(25° anniv.),d. Massimo Nesci (25° anniv.). Ringraziamo anche loro per la testimonianza di servi fedeli lungo tanti annidi ministeroe in mezzo – almeno per i più anziani – ad epocali cambiamenti.

Un saluto riconoscente ai confratelli che vengono daaltrechiesecome “fidei donum”come anche aquelli cheoffrono il loro ministero nelle nostre comunità durante la Settimana Santa e la Pasqua.

Un ricordo e una preghiera, infine, peri confratelli che non sono fisicamente tra noi per motivi di salute o perché svolgono il ministero in altre Chiese.Qualcuno mi ha assicurato chesiunisce spiritualmentea noi.

Concludo, chiedendo di pregare per questo nostro mondo così travagliato, ove con grande facilità si attenta alla vita delle persone e diventa sempre più grande il disprezzo per la vita. Con la nostra testimonianza mostriamo al mondo che la fede porta ad amare Dio ed i fratelli e che ogni fondamentalismo che disprezza l’uomo va contro Dio. Preghiamo per le vittime dei recenti attentati terroristici. L’ideologia del terrore, o meglio della morte, che si nasconde dietro volti di uomini e donne senza cuore ci fa avvertire l’atrocità del male e rende il nostro mondo sempre più disumano. Ancora il Signore continua ad essere crocifisso ed il suo sangue continua ad essere versato per le strade, nelle metropolitane, agli aeroporti, laddove si vive la quotidianità. Preghiamo anche per le giovani studentesse morte qualche giorno in un incidente stradale in Spagna.

La nostra preghiera deve essere incessante anche per il nostro paese. Le numerose inchieste su politica, corruzione e malaffare che si susseguono e su scala regionale e nazionale devono suscitare il desiderio di una più forte partecipazione alla vita civile. La nostra risposta come Chiesa non può essere solo con denunce. Alla denuncia deve corrispondere l’impegno per la formazione di un laicato maturo pronto ad affrontare le problematiche del territorio, sapendo dare ragione della propria fede. Essere qui, insieme, stasera, sacerdoti e laici ha soprattutto questo significato: sapere che fuori c’è un mondo, che ha smarrito il senso della vita e che ha bisogno di vedere il Signore. Solo insieme possiamo farcene carico, sapendo che coloro che si lasciano incontrare da Gesù “sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento” (EG 1). Non tradiamo le attese e le speranze del nostro tempo! AMEN.

XFrancesco Oliva

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