Il difensore di Costa, avvocato Sandro Furfaro aveva, quindi, proposto ricorso per vizio della motivazione e mera ripetizione del percorso logico censurato nel giudizio rescindente della Corte di Cassazione e illogicità della motivazione in ordine tanto alla valutazione del materiale probatorio richiamato, quanto alla decisività e completezza dell’esame delle prove a carico indicate in sentenza e di quelle solo apparentemente considerate.

Furfaro contestava altresì che la decisione della Corte d’Appello fosse fondata su indizi già ritenuti di mero, ancorché plausibile sospetto dalla Cassazione non colmando «Il deficit argomentativo e indiziario evidenziato dalla stessa sentenza rescindente» in quanto al boss Tommaso Costa veniva attribuita, secondo la difesa, una condotta «Sostanzialmente non provata in via diretta ed erroneamente provata in via indiretta mediante il richiamo all’imputazione estorsiva (ai danni del futuro suocero della vittima Antonio Scarfò) e alle prove evocate a sostegno di quest’ultima».

«Dall’esame completo delle prove utilizzate – è scritto nelle motivazioni della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello lo scorso anno ai danni di Costa – risulta logicamente dimostrato che Tommaso Costa non ha mai dato mandato al suo sodale Giuseppe Curciarello di uccidere Gianluca Congiusta e non ha mai espresso alcun intento omicidiario nei confronti di costui: circostanza, quest’ultima che risultava dalla semplice constatazione che l’omicidio si è verificato quattro mesi dopo la scarcerazione dell’imputato e dopo che, come risulta dalla stessa sentenza di Appello impugnata, Costa aveva avuto un incontro con Antonio Scarfò» nelle settimane che precedettero il tragico omicidio.

La Cassazione aggiunge che «La tesi secondo la quale l’omicidio del Congiusta è stato commesso da Salvatore Salerno – interessato all’estorsione nei confronti dello Scarfò che vessava da anni – è stata incongruamente liquidata dalla sentenza nonostante tale ricostruzione fosse confermata dalla intercettazione di una fonte qualificata (il capo mafia Francesco Muià), essendo illogicamente collegata alla responsabilità del Costa per tentata estorsione allo Scarfò, quasi che questa escludesse la medesima condotta illecita da parte del Salerno».

Secondo la Corte di Cassazione, la sentenza di condanna di Costa, inoltre «Ha erroneamente escluso l’esistenza di altre causali dell’omicidio, e, in particolare, il movente passionale della “donna irraggiungibile” e l’ipotesi usuraria».

Fin qui le motivazioni di fatto. 

Per quanto riguarda le motivazioni di diritto, la Cassazione ha ritenuto il ricorso dei difensori del Costa (già condannato all’ergastolo per l’omicidio a volto scoperto di Pasquale Simari, commesso a Gioiosa Ionica il 26 luglio 2005, due mesi dopo l’omicidio Congiusta e durante il periodo di latitanza di Tommaso Costa) fondato, avendo ritenuto «Carente la doppia sentenza di merito, sul piano della coerenza logica del discorso giustificativo giudiziale, con riferimento alla ritenuta finalizzazione omicidiaria, perché privo del tassello specifico e concreto», ravvisando, nel contempo «Più logica una azione omicidiaria indirizzata verso la persona dello stesso imprenditore – Antonio Scarfò – che non verso il futuro genero, reo sì di aver fatto partecipe un componente della cosca avversa della lettera estorsiva, ma con il quale il prevenuto aveva stretto di seguito un rapporto di colleganza, senza considerare la distanza di tempo intercorrente tra la consegna della lettera e l’azione omicidiaria».

«I giudici di merito – scrive la Cassazione con riferimento alle sentenze di condanna pronunciate dalla Corte d’Appello – sono quindi incorsi in una vera e propria fallacia di presunzione, per aver supposto tacitamente qualcosa che non è stato presentato come sostegno dell’argomento e che non lo può essere, nella misura in cui la causale dell’omicidio, a ragione prospettabile ma non sufficiente, non è sorretta da elementi concreti che possano deporre per l’azione omicidiaria effettiva di un soggetto hic et nunc».

In pratica, la Corte di Cassazione ritiene che «La sentenza impugnata non ha rispettato le indicazioni espresse dalla sentenza rescindente, rimanendo all’interno del perimetro già ritenuto illegittimo da detta sentenza», lasciando, secondo la Suprema Corte «Carente la giustificazione in ordine alle ragioni dell’omicidio in funzione della ritenuta sovraesposizione della vittima dopo il recapito della lettera estorsiva, rimanendo sicuramente inspiegato il lungo lasso temporale tra l’emergenza del fatto e la verificazione dell’omicidio, avvenuto anche dopo quattro mesi dalla scarcerazione del ricorrente».

Per queste ragioni, la Cassazione dispone l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna di Tommaso Costa, limitatamente ai reati di cui ai capi F) e G) per non avere commesso il fatto, rinviando ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria per rideterminazione della pena in relazione ai reati per i quali è già intervenuta condanna definitiva, considerati dalla sentenza impugnata in continuazione col reato di omicidio per il quale vi è annullamento. 

Gianluca Albanese – lente locale.it