«Un quadro probatorio del tutto privo di significatività ai fini del giudizio di colpevolezza dell’imputato per una contestazione di estrema gravità, quale quella di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso». La Corte d’Appello di Reggio Calabria chiude così la vicenda di Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa, rimasto in cella per cinque anni e nove giorni da uomo innocente, da quel che dicono oggi i giudici a distanza di dieci anni dall’inizio del suo calvario giudiziario.

Arrestato nel 2011 con l’operazione “Circolo Formato”, che svelò gli interessi della cosca Mazzaferro sulle elezioni amministrative del 2008, Femia fu condannato sia in primo grado sia in appello a dieci anni di reclusione, indicato dai giudici come «partecipe consapevole» di tutte le dinamiche della cosca che ne avrebbe supportato l’elezione. Una certezza prima apparsa granitica e che ha iniziato a vacillare in Cassazione, nel 2018, quando i giudici, escludendo categoricamente che l’ex sindaco potesse ritenersi un affiliato al clan che aspirava a riprendere il controllo della cittadina, rispedirono gli atti alla Corte d’Appello, invitando i colleghi a capire se fosse quantomeno un concorrente esterno a quella cosca e se, dunque, ci fosse stato un patto tra le due parti.

I rapporti e le relazioni col capo clan c’erano, evidenziarono i giudici, ma «qualificare in termini di partecipazione la condotta del Femia valorizzando quale tratto unico e significativo la vicenda elettorale (…) non costituisce operazione logica corretta». L’equazione, scrivevano infatti gli ermellini, non tiene conto delle possibili spiegazioni alternative e costituisce «una sorta di scorciatoia probatoria della partecipazione non accoglibile».Il nuovo processo in appello, trascinatosi – anche a causa del covid – fino a marzo scorso, ha però cancellato anche quella infamante accusa, accogliendo la richiesta di assoluzione avanzata dagli avvocati Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino: di prova concreta, nel processo, non ne è emersa nemmeno una. E anzi sarebbero emerse prove di come l’amministrazione Femia, cancellata con un colpo di spugna da quell’operazione che fece finire in carcere anche tre assessori (poi tutti assolti), si fosse impegnata nel senso opposto a quello evidenziato dall’accusa.

«Di contro – si legge infatti nelle 26 pagine che motivano la sua assoluzione – assumono rilievo ai fini della decisione una serie di attività dell’amministrazione guidata dal sindaco Femia Rocco (documentate dalla difesa e non contrastate da alcuna emergenza processuale di segno contrario), finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale». Come ad esempio la scelta, subito dopo l’insediamento della nuova giunta, di delegare alla Stazione unica appaltante provinciale tutti gli appalti pubblici, sia al di sopra dei 150mila euro sia al di sotto. Nessuno spazio, dunque, ai clan, che per mettere le mani su quegli appalti non avrebbero potuto comunque confrontarsi con la giunta, ma avrebbero dovuto bussare altrove. Ma non solo: «Sono stati acquistati mezzi idonei (un miniescavatore, un bobcat, una macchina spazzatrice) ad intervenire sul territorio per eseguire autonomamente lavori di piccoli importi, al fine di evitare di ricorrere all’affidamento ad imprese esterne, mediante la procedura della somma urgenza».

Un modo, questo, per evitare ogni piccola ingerenza sui lavori – anche i più sciocchi – da eseguire sul territorio comunale. Così com’è stata revocata l’aggiudicazione provvisoria a ditte non in regola con la documentazione o sono stati sequestrati e affidati in custodia gli animali rinvenuti sui terreni di proprietà dei clan. Insomma: nessun occhio di riguardo, sembrano dire i giudici. Tant’è che nemmeno con la piaga dell’abusivismo edilizio, comune a quelle latitudini, l’amministrazione avrebbe chiuso un occhio, giungendo anche alla demolizione di una stalla costruita abusivamente da un membro del clan Mazzaferro. Inoltre, sono stati messi gratuitamente a disposizione dei Carabinieri i locali della dismessa stazione ferroviaria acquisiti dal Comune e sono stati destinati al pubblico i beni confiscati alla ‘ndrangheta, approvando un apposito regolamento per la gestione degli stessi. Scelte concrete, per i giudici di secondo grado, alle quali si sono associate anche iniziative “simboliche” contro la ‘ndrangheta, in collaborazione con associazioni come “Libera” e “Don Milani”.

«L’assenza di apprezzabili possibilità di diverse acquisizioni istruttorie» idonee a concludere un accordo con i clan, dunque, hanno portato all’assoluzione di Femia «per non aver commesso il fatto». Non basta, infatti, per la sussistenza del concorso esterno, «una mera vicinanza al detto gruppo (mafioso, ndr) od ai suoi esponenti, anche di spicco, e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa», ma è necessario «un vero patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti della stessa organizzazione in un modo che, sin dall’inizio, sia idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento».

fonte: Simona Musco – https://www.ildubbio.news/

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