Un’usanza diffusa per anni e che ancora oggi si cerca di portare avanti. C’è qualcuno che continua a preparare u pani i casa probabilmente usando il forno elettrico, ma la tradizione vuole che il pane sia preparato nel forno a legna. Visitando delle vecchie abitazioni si possono trovare ancora delle stanze con il forno a legna. Il pane si preparava in abbondanza e lo si donava sempre a chi non poteva permetterselo e veniva preparato secondo una ricetta tradizionale. Non esisteva il lievito di birra, pertanto le donne preparavano “u lavatu” (lievito) lasciando inacidire un impasto a base di farina, acqua e sale. Una volta pronto, il composto appariva duro all’esterno e morbido all’interno. La farina di grano duro si prendeva al mulino del paese. La preparazione del pane fatto in casa richiedeva un’organizzazione scrupolosa. La legna secca e asciutta, rami di ulivo o del vigneto di vecchie potature – “i fraschi”, doveva essere pronta dal giorno prima.

 

Nella majija (madia), la famosa cassapanca di legno, le donne modellavano l’impasto con la forza delle loro braccia. Si univano gli ingredienti, quindi il lievito sciolto in acqua tiepida, la farina setacciata con il “crivu” (setaccio), il sale sciolto in acqua, mentre due o più braccia continuavano a mantenere vivo l’impasto. L’impastata energica permetteva all’aria di penetrare nella pasta e renderla leggera. Una volta che l’impasto era consistente e asciutto si procedeva a separarlo in panetti, per formare poi i cuijuri (ciambelle) o i filoni (pagnotte). Questi venivano posizionati su un ripiano, cosparsi di farina e ricoperti con lenzuola e coperte affinché lievitassero. A questo punto le donne preparavano il forno, quindi si accendeva il fuoco. La temperatura del forno si misurava osservando i mattoni della cupola che in base al calore, assumevano colori differenti. Dopo aver tolto la brace, bisognava lavare l’interno del forno, con un panno bagnato legato su una sorta di pala fatta in casa e impedire cosi che il pane potesse sporcarsi durante la cottura. Dopo circa un’ora, le pagnotte venivano incise con un coltello e da li si capiva se erano pronte per essere infornate. Una volta pronto, solitamente la donna più anziana, quindi quella con più esperienza, procedeva a infornare il pane. Si prendeva una pala di legno e si cospargeva di farina. Una donna poggiava i panetti sulla pala e l’altra li caricava immediatamente nella bocca del forno. La donna più anziana sapeva sempre come disporre il pane nel forno e fare in modo che ci entrasse tutto. La parte in prossimità della bocca del forno veniva lasciata libera per delle pagnotte più sottili rispetto alle altre. Queste erano le pitte che richiedevano un tempo di cottura e lievitazione minore rispetto all’infornata del pane. Proprio da questo è nato il proverbio calabrese:
“Pari na pitta avanti u furnu”. Appena il forno era pieno, questo veniva chiuso con un pannello di ferro che impediva la dispersione di calore. L’infornata veniva monitorata continuamente. Le pitte, che si cuocevano prima di tutte, spesso veniva tagliate in due e rimesse nel forno per preparare “i frisi” (freselle). Dal forno si toglieva una pagnotta (a pitta) ancora calda e la si mangiava nell’immediato, con i prodotti tipici della tradizione come verdure sott’olio oppure semplicemente con un filo d’olio e un pizzico di sale…o “conzata cu salimori”…(o riempita con le cicciole di maiale).
Per diventare duro, le friselle venivano lasciate in forno per qualche giorno. Tutte le altre pagnotte, invece, venivano tolte dopo circa un’oretta. Le pagnotte venivano tolte dal forno con una pala in legno e poste all’interno di una cesta tutte insieme, avvolte in una tovaglia e lasciate a raffreddare.

Si ringrazia la pagina fb GIOIOSA JONICA (RC)