L’inchiesta, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, ha ricostruito una rete di estorsioni e intimidazioni messa in piedi per controllare ogni attività legata al cimitero comunale: dall’organizzazione dei funerali alla vendita dei fiori, dai lavori edili sui loculi al trasporto dei defunti. Nulla sfuggiva all’influenza del clan, che si spartiva anche gli appalti pubblici e privati, tra cui i lavori di ristrutturazione di edifici scolastici, il teatro di Moschetta e Palazzo Nieddu Del Rio.
A confermare il clima di terrore, le 150 pagine di motivazioni della Corte d’appello, in cui vengono documentate numerose minacce ai danni di imprenditori che osavano inserirsi nel settore. Tra i casi più gravi, quello avvenuto nel febbraio 2018, quando una persona ritenuta di fiducia, appiccò il fuoco al camioncino di un’impresa concorrente usando una tanica di benzina. Il gesto incendiario – spiegano i giudici – era un messaggio chiaro per chi cercava di lavorare nel settore senza il consenso del clan.
Emblematica anche la testimonianza di un imprenditore a cui erano stati affidati piccoli lavori all’interno del camposanto. L’uomo racconta di aver ricevuto minacce dirette e un divieto assoluto di operare nel cimitero:
«Diglielo a questi altri quattro mastri di merda, qui dentro comando io».
Una rete di controllo radicata nel tempo, che aveva trasformato un luogo sacro in un terreno di potere mafioso, e che oggi — grazie alle indagini e alle condanne — vede finalmente incrinarsi la sua egemonia.
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