Cara figlia mia

Sai, c’era una volta l’Aspromonte. I suoi pini larici erano dei giganti che parlavano direttamente al cuore. Li abbracciavamo perché ci donassero pace. Ci connettevano in una dimensione senza tempo. In quell’abbraccio era racchiuso tutto il nostro orgoglio di umili calabresi, ci sentivamo ora i devoti pellegrini in cammino per Polsi, gli arcigni pastori delle radure, ora i contadini di jermano ma anche gli sfollati di Africo e Roghudi.
C’erano anche le querce. Il loro fusto era cosi’ grande che non riuscivamo a cingerlo nemmeno in tre persone. Erano le madri della nostra terra.Testimoni silenziose della sua storia. Pensa che c’erano ai tempi degli Angioini, dei Borboni e dei briganti, quando vi passò lo scrittore pittore Edward Lear, quando Garibaldi fu ferito. Dal loro balcone privilegiato furono spettatrici inermi dei terremoti del 1908 e 1783 e delle alluvioni che spopolarono i centri abitati della nostra montagna.
C’era semplicemente il bosco, col lupo impaurito, sempre braccato perchè predatore di greggi; c’era il ghiro, ambito bottino di bracconieri che lo cacciavano con trappole di pietre messe sugli alberi; c’era il vivace scoiattolo nero che faceva capolino tra i rami dei pini e c’era il cinghiale che col muso faceva dei grossi solchi nella terra alla ricerca dei tuberi. Ovunque c’era vita, anche se non riuscivamo a coglierla perché eravamo degli ospiti rumorosi e distratti.
Mi dispiace amore mio non essere riuscito a farti vedere tutto quest’incanto.
Dovessi sapere quanto ho pianto al pensiero che tu non avresti visto nemmeno un solo frammento dell’Aspromonte che ho conosciuto e amato.

Il deserto che adesso hai di fronte non l’ha procurato la sola mano di un malato, ma un sistema avido e meschino che, attraverso il fuoco, ha voluto cancellare la bellezza e con essa ogni nostra speranza di affrancamento dall’isolamento e dalla ‘ndragheta.
Natale Amato