tratto dalla pagina fb GIOIOSA IONICA (RC)
La cannizza è una struttura tessile realizzata intrecciando canne di fiume, soprattutto quelle della specie Phragmites australis — comunemente nota come “canna comune” o “canna di palude”. Questo materiale, abbondante lungo i corsi d’acqua calabresi, viene raccolto, essiccato e lavorato a mano con tecniche tramandate da generazioni.
Il risultato è un pannello robusto, flessibile e leggero, caratterizzato da un motivo geometrico a maglie incrociate — spesso a rombi o a quadrati — che conferisce alla cannizza non solo resistenza ma anche un’estetica raffinata, quasi scultorea.
L’origine della cannizza calabrese risale a tempi remoti, probabilmente all’epoca dei Greci e dei Romani, quando l’intreccio di canne era già usato per costruire recinzioni, tetti, sedili e persino imbarcazioni. In Calabria, questa tecnica si è sviluppata in modo particolare, adattandosi alle esigenze locali: proteggere gli orti dai venti, coprire le stalle, rivestire muri o creare mobili rustici.
I cannizzari — i maestri artigiani che realizzavano le cannizze — erano figure rispettate nei paesi di montagna e di pianura. Spesso lavoravano in famiglia, trasmettendo il mestiere ai figli fin da piccoli. La lavorazione richiedeva pazienza, forza e precisione: ogni canna doveva essere tagliata alla giusta lunghezza, piegata senza spezzarsi e intrecciata con un ritmo preciso.
Il processo di produzione è interamente manuale e segue passaggi rigorosi:
Raccolta delle canne: avviene in autunno-inverno, quando le canne sono mature e secche.
Essiccazione: le canne vengono lasciate ad asciugare al sole per settimane, per renderle più flessibili e resistenti.
Preparazione: vengono tagliate a misura e, se necessario, sbucciate o levigate.
Intreccio: su un telaio semplice, le canne verticali (l’ordito) vengono alternate con quelle orizzontali (la trama), fissate con nodi o legacci di canapa.
Finitura: il bordo viene rinforzato con listelli di legno o con ulteriori intrecci per garantire stabilità.
Il prodotto finale può variare in dimensione e densità: dalle piccole stuoie per sedute ai grandi pannelli per recinzioni o pareti divisorie.
La cannizza calabrese non era solo un elemento strutturale o decorativo: era anche uno strumento fondamentale nella conservazione, pratica essenziale in una regione alimentare come la Calabria, dove l’autosufficienza contadina e la stagionalità dei raccolti richiedevano metodi ingegnosi per conservare il cibo.
Nei mesi estivi, quando il sole picchia forte e l’aria è secca, le famiglie calabresi stendevano su grandi cannizze appoggiate su tetti, balconi o appese a sostegni di legno:
Fichi: tagliati a metà o lasciati interi, venivano disposti in file ordinate per diventare fichi secchi — dolci naturali da conservare per l’inverno o da offrire agli ospiti con noci e vino cotto.
Pomodori: soprattutto i “pomodori a grappolo” o i “san marzano”, venivano affettati sottilmente e messi ad essiccare per ottenere la passata secca oi famosi “pumadori impisi” (pomodori appesi), conservati in fili e usati per insaporire sughi e minestre.
Peperoncini: interi o a pezzi, per preparare la “filza” (il classico filo rosso appeso alle pareti delle case calabresi).
Melanzane, zucchine, funghi e persino pesce (come le alici) venivano essiccati su cannizze in alcune zone costiere.
La struttura aerea e permeabile della cannizza permetteva un’ottima circolazione dell’aria, evitando muffe e garantendo un’essiccazione uniforme. Allo stesso tempo, il materiale naturale non alterava il sapore degli alimenti, a differenza di superfici metalliche o plastiche.
Oggi, con la riscoperta della sostenibilità e della filiera corta, questa antica pratica torna attuale. Chef, contadini e appassionati la ripropongono non solo per nostalgia, ma per qualità, gusto e rispetto per il territorio. E la cannizza, in questo contesto, non è solo un oggetto del passato: è un simbolo vivente di una cultura alimentare consapevole.