di Pino Carella

Quarta serata del Kaulonia Tarantella Festival

Il ventisettesimo Festival della Tarantella giunge al suo epilogo.

Caulonia si sveglia a fatica, stropicciando gli occhi di pietra e memoria, ancora intrisa del canto struggente di Lina Sastri che la sera prima aveva sfiorato il cuore della gente come una carezza lunga e delicata.

C’è ancora musica nell’aria, vibra tra i vicoli come un sogno che non vuole andare via.

Ma oggi, il giorno promette una lunga danza di emozioni, parole e passi.

Nel salotto raccolto del Cristo bizantino, una storia si impone su tutte. Una storia che attraversa deserti e mari, silenzi e battaglie.

È quella di Nour Eddine Fatty, cittadino del mondo, nato in un piccolo villaggio del Marocco, dove il cielo è grande e i sogni più grandi ancora.

Da bambino sognava la musica: un piccolo pifferaio magico che suonava per sé stesso e per i suoi alberi.

Il nonno gli comprava i pifferi, la nonna li spezzava. “La musica non riempie la pancia”, diceva. Eppure Nour non smise mai di suonare.

Emigrò, prima in Francia, poi in Italia. E tra lingue nuove e silenzi antichi, la musica divenne la sua voce.

Raccontava tutto questo con voce profonda e occhi lucidi, aveva catturato il pubblico, ammaliato come da un incantesimo.

Ma proprio quando la sua narrazione diventava carne e sangue, il tempo è scaduto. Il racconto è stato interrotto.

Subito dopo, si è parlato di sbarchi e accoglienza, con i sindaci di Caulonia e Roccella, paesi di frontiera e di speranza.

Parole semplici e necessarie: chi approda a Roccella, ha già vinto perché è in vita è quanto ha affermato Zito. Caulonia così come Riace accolgono come fratelli smarriti.

Due paesi uniti dallo stesso mare e da un’antica amicizia che resiste.

Poi, di corsa verso Piazza Mese, dove il palco attende la notte finale.

Ad aprire la danza è Pietro Cirillo, erede e allievo di Infantino, originario di Tricarico, cuore della Basilicata contadina.

Ricercatore di suoni, custode di tradizioni, la sua musica è una cometa che passa rapida ma lascia una scia luminosa.

Solo 43 minuti di esibizione, abbastanza per capire che le cose belle, spesso, durano troppo poco.

Il testimone passa a Mimmo Cavallaro, colonna sonora dell’anima calabrese.

La sua musica, radicata e libera, ospita sul palco Nour Eddine. E le loro voci, le loro corde, si intrecciano come due fiumi che si cercano.

Il Marocco e la Calabria diventano una sola terra.

Il ponte ha un nome: “Catarinè”, che torna in scena ancora, come un richiamo.

Un’altra perla segue: Mimmo canta i canti ad aria della fatica e della terra, Nour risponde con le sue melodie nomadi.

E mentre la musica risuona, arriva come un sussurro potente il grido della piazza:

“Free Palestine”.

Non è solo uno slogan, è un canto che si alza sincero e commosso, dal cuore di una festa che sa essere anche coscienza.

Poi la scena si accende con l’arrivo di Marcello Cirillo, che porta leggerezza e festa.

Il ritmo sale, si danza.

“Tarantella di lu sciorru” vibra potente, scritta da Cavallaro ispirandosi a San Nicola, paese natio di Cirillo.

I due duettano, complici e gioiosi. Il pubblico li segue come un’onda.

E quando Marcello canta “O Sarracino”, la piazza si scuote come un tamburo battente.

Ma manca ancora un nome, una presenza attesa: Morgan, l’altro direttore artistico.

Compare come un lampo, giusto il tempo di dare la sua impronta: geniale, istrionico, sempre sopra le righe e oltre le convenzioni.

Si unisce a Mimmo, dialoga con il gruppo, gioca con il pubblico.

La doppia direzione artistica di Mimmo Cavallaro e Morgan si è rivelata una scommessa vincente: inattesa, creativa, sorprendente.

Due mondi diversi, due visioni che si sono incontrate e fuse, portando nuova linfa a un festival che continua a reinventarsi senza mai perdere la sua anima.

È l’apoteosi: il palco si riempie di musicisti, amici, strumenti, sorrisi.

È un’orgia di suoni e colori, una festa senza tempo.

Sono quasi le tre del mattino e Piazza Mese è ancora viva.

Si canta, si beve, si balla.

Poi, come in una processione pagana , ci si avvia verso lo Sperone.

È l’alba, la quarta e ultima del festival.

Caulonia cammina in silenzio, uno dietro l’altro, i piedi stanchi e il cuore pieno.

Il sole si alza lento, carezza pietre , ulivi e agrumeti.

È stato un festival da ricordare, che ha saputo unire passato e presente, tradizione e innovazione, radici e orizzonti.

Il Festival è finito.

L’inverno può tornare.