«Abbiamo scoperto che sul lungo periodo – spiega Dominici al Corriere – basta una differenza di un microgrammo nella media di pm 2,5, il particolato ultrasottile, per aumentare il tasso di mortalità del nuovo coronavirus del 15%». Le pm 2,5 sono le “polveri sottili”, le micro particelle inquinanti e cancerogene prodotte da scarichi industriali, delle auto e dei riscaldamenti. I danni polmonari prodotti dalle polveri sottili sono noti da tempo: queste particelle sono così piccole che riescono a penetrare negli alveoli dei polmoni e poi nel sangue. E se un virus aggressivo come il Covid 19 attacca polmoni già danneggiati, è chiaro che i suoi effetti sull’organismo diventano molto più severi.
Lo si ipotizzava, certo, ma adesso l’ipotesi viene corroborata dai dati numerici della “biostatistica”, che ha rivelato una associazione tra inquinamento e pericolosità del nuovo coronavirus. «Se una persona vive per decenni in un luogo dove ci sono livelli alti di particolato – prosegue Dominici – ha una maggiore probabilità di sviluppare sintomi gravi. È un risultato che non ha sorpreso chi studia gli effetti delle polveri sottili sulla salute. Sappiamo già che l’esposizione di lungo periodo al microparticolato causa infiammazioni ai polmoni e problemi cardiocircolatori. E sappiamo che le persone con problemi al sistema respiratorio e cardiocircolatorio contagiate da Covid-19 hanno un tasso di letalità più alto». Si spiegherebbe così – almeno in parte – anche ciò che è successo nel nord Italia, visto che la pianura padana è una delle zone più inquinate d’Europa, e questo potrebbe avere avuto un ruolo importante anche nell’alto numero di vittime che si sono registrate in Lombardia.
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