ROMA Tutti muti davanti al gip. Nessuna risposta alle domande del giudice che li interroga in una saletta dedicata nel carcere di Rebibbia. Un segnale di compattezza quello mostrato nei primi interrogatori di garanzia dai 33 arrestati nella maxinchiesta sul clan dei Casamonica. Il primo a comparire davanti al gip è stato Angelo Di Guglielmi che ha scelto di non rispondere alle domande del magistrato. Domani l’attività istruttoria proseguirà con altri interrogatori e sarà il turno degli esponenti di spicco del clan in particolare i fratelli Consiglio, Luciano e Antonietta Casamonica. La scelta del “silenzio” è stata fatta anche da Domenico Strangio, ritenuto figura di collegamento tra la ‘ndrangheta calabrese e il clan romano. Nei suo confronti i pm contestano la detenzione e la cessione di un «ingente quantitativo di cocaina». Ed è proprio sui rapporti intercorsi tra il gruppo di origine rom e le grandi organizzazioni criminali che l’indagine della Dda di piazzale Clodio potrebbe avere ulteriori sviluppi. Dalle carte dell’indagine emerge, infatti, che i Casamonica avevano strutturato l’organizzazione ricalcando in particolar modo le dinamiche tipiche delle ‘ndrine calabresi e nell’ordinanza di arresto emergono contatti anche con Michele Senese, rappresentate della camorra campana nella Capitale, soprattutto per quanto riguarda l’approvvigionamento delle sostanze stupefacenti. A raccontare della rete creata dai Casamonica è uno dei due pentiti. Massimiliano Fazzari sentito dai magistrati ha spiegato come nell’organizzazione funzionasse «come in Calabria». «Ognuno ha i suoi compiti – ha spiegato agli inquirenti – hanno uno organigramma e soprattutto hanno un capo, proprio come i malavitosi calabresi». Altro elemento che sembra avvicinare il clan ai grandi gruppi criminali è l’assoluta disponibilità di armi. Tutti gli affiliati del gruppo erano in possesso di pistole. E’ sempre il collaboratore di giustizia a confermarlo. «So che sono tutti armati. Perché io ho tentato di venderne a loro ma mi dissero “a noi non ci servono, ne abbiamo”. Ne erano pieni». Dinamiche che ricordano le realtà consolidate della criminalità organizzata. Un modus operandi riconosciuto anche dalla Direzione investigativa antimafia che nel suo ultimo rapporto semestrale ribadisce come a Roma si evidenziano sempre più organizzazioni come quelle in Sicilia, Calabria e Campania. Secondo il documento, in alcune aree della Capitale ci sono formazioni criminali che, «basate su stretti vincoli di parentela, evidenziano sempre di più modus operandi assimilabili alla fattispecie prevista dall’art. 416 bis». «Gli esiti investigativi e giudiziari degli ultimi anni – si legge ancora nel rapporto della Dia – continuano, infatti, a dar conto di una realtà, quella romana, particolarmente complessa sotto il profilo delle infiltrazioni criminali, che vedono all’opera qualificate proiezioni delle organizzazioni di tipo mafioso italiane (siciliane, calabresi e campane in primis), che sono riuscite agevolmente ad adattarsi alle caratteristiche socio-economiche del territorio di elezione. All’occorrenza, queste compagini criminali sanno perfettamente intersecare i propri interessi non solo con i sodalizi di matrice straniera, ma, anche, con le formazioni delinquenziali autoctone».

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