La Luffa: Quando la natura ci regala una spugna — e una lezione di saggezza contadina.

Forse non tutti lo sanno — eppure, tra i filari dell’orto qualche gioiosano, cresce una pianta che sembra uscita da un racconto antico: la Luffa. Non una semplice zucca, né solo un rampicante curioso: è una custode di memoria verde, una pianta che sa trasformare il tempo, la pazienza e la terra in un oggetto utile, elegante nella sua essenzialità: una spugna vegetale, 100% naturale.

Diversi anni fa, la ricordo bene, comparve anche al mercato domenicale di Gioiosa Ionica — distesa su un banchetto, quasi fosse un dono dimenticato del passato riportato in superficie. Alcuni ne sorrisero, incuriositi; altri, più anziani, annuirono con lo sguardo di chi già conosceva.

Botanicamente, la Luffa aegyptiaca (o Luffa cylindrica) appartiene alla famiglia delle Cucurbitacee — la stessa di zucche, zucchine e cetrioli — ma il suo frutto, lungo e affusolato, nasconde un segreto fibroso. Non si mangia (almeno non da maturo), ma si trasforma. Dopo circa sei mesi di crescita — dall’inizio della primavera fino all’autunno inoltrato — il frutto, ormai secco e leggero, diventa una vera e propria spugna: resistente, porosa, flessibile. Una sorta di tessuto naturale, intrecciato dal tempo e dal sole.

La luffa ama il caldo, il sole diretto, un terreno ben drenato. Non sopporta l’ombra né l’umidità stagnante. Bisogna sostenerla, farla arrampicare — su una rete, un graticcio, un vecchio albero d’ulivo — perché è generosa, ma ha bisogno di spazio per esprimere tutta la sua forza vitale. E quando, finalmente, il fusto ingiallisce e il frutto si fa leggero come un osso vuoto, è il momento della raccolta.

Il Rito della Trasformazione: Raccoglierla è solo l’inizio. Poi viene il fare, quel gesto antico che unisce le mani alla terra:

Si taglia la parte inferiore del frutto secco, e i semi — piccoli, piatti, neri come chicchi di caffè — cadono con un suono lieve, quasi musicale. Li si conserva, naturalmente: per l’anno prossimo, per un nipote, per un vicino.

Si sfila la buccia, fragile e sottile come carta di riso, e si rivela l’intreccio fibroso: la spugna, appunto.

Infine, il bagno purificatore: dodici ore in acqua tiepida con un cucchiaio di bicarbonato. Basta poco per restituire alla luffa il suo candore naturale — senza sbiancanti chimici, senza fretta.

E qui la luffa rivela la sua anima poliedrica. Non è un oggetto, è una possibilità: In bagno, bagnata, diventa delicata come un guanto di seta vegetale: perfetta per la pelle dei bambini, per chi ha la pelle sensibile, o semplicemente per chi preferisce l’abbraccio della natura al freddo della plastica.

Usata asciutta, invece, esfolia con gentilezza — un massaggio che pulisce in profondità, stimolando la circolazione, risvegliando i sensi.

In cucina, sostituisce spugnette e pagliette: non graffia le pentole di terracotta, non lascia residui, e dura mesi.

In giardino, si usa per pulire attrezzi; in officina, per lucidare superfici delicate; in sartoria, alcuni artigiani la usano come imbottitura leggera o stampo per modellare tessuti.

Ma c’è di più. Nella sua essenza c’è un messaggio antico: niente si butta, tutto si rigenera. La luffa ci ricorda che la sostenibilità non è una moda, ma una pratica tramandata — dai nostri nonni, dai contadini saggi, da chi sapeva che la terra dà, se le chiedi con rispetto.

Oggi, mentre il mondo corre verso il monouso e lo scarto, riscoprire la luffa è un atto quasi poetico. È coltivare non solo una pianta, ma una filosofia: lenta, concreta, radicata.

E forse, tra un filare di pomodori e un pergolato di uva fragola, vale la pena lasciare un angolo per la luffa.

Perché ogni spugna che ne nasce è una piccola vittoria della natura — e della memoria.

PAGINA FB GIOIOSA IONICA (RC)