Di Francesco Marrapodi

In un solo, lacerante istante, nove bambini sono stati strappati alla vita per sempre. Non da una malattia, non dal destino cieco, ma dal calcolo brutale di una guerra che non conosce pietà. Le loro piccole vite spente tra le fiamme e le macerie, i corpi carbonizzati, irriconoscibili, raccolti come frammenti di un’umanità spezzata. Solo uno dei dieci figli di Alaa al-Najjar, madre e pediatra a Gaza, respira ancora. Ma la sua è un’esistenza appesa a un filo di dolore, tra la vita che vacilla e la morte che incombe.

Non è una statistica. È una condanna. È un urlo straziante che squarcia il cielo, che attraversa i continenti e accusa la follia umana. Un mondo quasi impotente di fronte al sangue dei bambini che quotidianamente bagna le vie di Gaza.

Alaa, simbolo vivente di un popolo che ogni giorno combatte per non sparire, non è solo una madre distrutta: è la personificazione della resilienza. Con suo marito, anche lui medico, avevano costruito una famiglia grande e piena d’amore, dieci figli che erano il loro futuro. Ora, in un battito d’ali, ne resta solo uno. Gli altri sono stati annientati sotto un cielo che vomita morte, mentre lei, nel cuore dell’ospedale, cercava di strappare altri bambini all’abisso.

La crudeltà ha voluto che, mentre Alaa rianimava figli altrui, le bombe le portassero via i suoi. Nessun preavviso. Solo il boato, la polvere, e il silenzio. Un silenzio assordante, quello dell’umanità che ha smesso di indignarsi, perché a Gaza la guerra è diventata abitudine. La normalità è il terrore.

Quel figlio sopravvissuto è oggi in un letto d’ospedale, lo stesso dove sua madre salva vite altrui, ma non può salvare lui. Lì, il dolore si fa preghiera, e la speranza è un atto di resistenza contro l’oblio.

Questa non è una tragedia isolata. È un genocidio a frammenti, una cancellazione sistematica della vita, dell’infanzia, della speranza. Gaza oggi è un cimitero di sogni, un ammasso di rovine che racconta l’agonia di un popolo mentre il mondo resta muto, prigioniero della propria ipocrisia. Più di 14.000 bambini sono stati uccisi. Non sono numeri: erano nomi, sorrisi, giochi, futuri non vissuti. Oltre 40.000 civili morti, centinaia di migliaia feriti, più di 1,5 milioni di sfollati. Scuole ridotte a polvere, ospedali sventrati, case svanite sotto il fuoco.

E mentre Gaza crolla sotto il peso dell’indifferenza globale, si affacciano ombre ancora più oscure: progetti di deportazione di massa, di cancellazione dell’identità palestinese. Un piano che sa di pulizia etnica, che risuona come un’eco di tempi che credevamo sepolti nella vergogna della storia.

Le macerie di Gaza gridano. Ma chi ascolta? La guerra non ha solo distrutto vite: ha ucciso la memoria. Ha trasformato il dolore in abitudine. Gaza non è solo una striscia di terra: è il simbolo di un mondo che ha smarrito sé stesso, che ha smesso di essere umano.

Ogni bambino morto è un’accusa. Ogni madre in lacrime è una domanda che brucia: quanto ancora dovremo sopportare prima che la coscienza del mondo si risvegli?