D) Anton.francesco MILICIA e Antonio TASSONE sono qui con noi per dirci qualcosa in più su questa chiocciola che ormai sta diventando un tormentone estivo. A proposito: l’immagine simbolo che avete scelto per il vostro libro colpisce molto, questa chiocciola “crackata”, attraversata da profonde crepe. Cosa vorrebbe rappresentare?

R)  La chiocciola di per sé da il senso di protezione, di casa, di luogo ideale in cui rifugiarsi, di certezze sulle quali poggiare i propri valori e stili di vita, insomma. Quindi l’immagine, con questo reticolo di crepe che attraversano il guscio, vuole trasmettere un senso di precario o comunque di qualcosa facilmente aggredibile. Qualcosa che da un momento all’altro può cedere e far crollare le nostre certezze, con effetti nefasti. La rovina incombente insomma. Nel gioco di contrappesi che governa la nostra esistenza si fa spazio l’idea di qualcuno che malignamente trami per guastare la nostra felicità, allegoricamente da noi chiamato “il Burlone”. E’ colui che fa lo sgambetto all’atleta mentre sta per tagliare vincente il traguardo, e le vave sono da sempre il mezzo più usato per generare infelicità e insuccesso.

D): Le vave, ecco: sono quasi un filo costante in questa storia, come mai avete affidato tanta importanza alle chiacchiere e alla maldicenza, alle cosiddette vave, insomma?

R): Le vave rappresentano l’ottavo peccato capitale, quello di lingua, in cui chiunque prima o poi indulge. Con le vave si possono frantumare carriere brillanti, demolire edifici costruiti solidamente, distruggere esistenze. Il potere delle vave è ormai diventato immenso in una società in cui i mezzi di comunicazione vengono gestiti attraverso la diffusione delle parole, e quindi qualsiasi uso distorto di queste produce mostri. In uno degli ultimi capitoli del libro, L’evoluzione delle vave, si considerano gli scenari più letali in cui si consuma ormai da tempo l’abuso di parola. Un invito a riflettere che si aggiunge ai tanti temi trattati in una maniera volutamente subliminale nella storia di Lumache.

D): A proposito di temi ci sembra di capire che anche sul tema dei migranti e della politica dell’accoglienza, tra l’altro attualissimo, ci sia un orientamento ben preciso nella vostra storia.

R):La politica dell’accoglienza incondizionata vede tra i propri sostenitori persone che molto spesso per tenersi il gatto in casa senza avere fastidi preferisce farlo castrare; si lanciano ad alta voce nei social network in omelie in favore dell’accoglienza e integrazione senza considerare che lo sradicamento dei migranti da una terra completamente diversa dalla nostra per cultura, tradizioni e credenze crea in essi un disorientamento difficile da superare. Pretendono di aprire i porti, ma tengono ben serrate le porte, mentre i centri e i campi d’accoglienza diventano ormai sovraffollati e ingestibili. Ma la cosa che più ci fa pensare è che i sostenitori dell’integrazione ritengono che i migranti siano destinati a fare i lavori più umili, quelli che ormai gli italiani rifiutano, e che per questo siano indispensabili alla nostra economia. E’ così che questa gente viene socialmente “castrata”, proprio come i gatti da appartamento, relegata nei gradini più bassi della scala sociale e senza avere la possibilità di acquisire mezzi per migliorarsi. Perché invece non li facciamo studiare? Perché non affidiamo loro competenze che gli consentano di raggiungere una equità culturale e quindi di far emergere i loro valori e abilità al pari dei nostri? Non sono soltanto braccia, ma anche cervelli, magari in grado di fare meglio di noi anche lavori intellettuali e di concetto.  Quindi mettiamogli in mano i libri e i computer, non solo le zappe, vediamo come se la cavano. Questa deve essere la vera politica dell’integrazione. Altrimenti continuiamo a vedere poca differenza tra i campi di arance e quelli di cotone e tabacco di più di un secolo fa.

D): Non vogliamo anticipare nulla, ma leggendo Lumache si ha l’idea di un genere che cambia e si trasforma pagina dopo pagina, tanto che alla fine non si riesce bene a comprendere quale sia il genere in cui inquadrare questa storia.

R): Lumache non ha un genere che lo possa rappresentare, è vero; spazia dalla commedia al dramma, dall’erotico all’horror, ma la vita stessa è a volte comica, a volte drammatica, a volte spensierata a volte angosciosa. Se dunque si vuole raccontare qualcosa prendendo spunto dalla vita quotidiana, e, perché no, dalla realtà che ci circonda, ci si accorge che un solo genere narrativo non basta per definire tutto. Lumache è strutturato in sette diverse parti, ciascuna con nove capitoli titolati, con un’ultima parte di soli tre capitoli. Sette non è un numero casuale, come si vedrà. Ogni parte tende a racchiudere uno sviluppo a sé della storia, circoscritto anche temporalmente, dando un rilievo diversificato ai personaggi, con la tecnica cioè dello spin-off, caratteristica delle serie TV di ultima generazione. Quindi il personaggio che magari ritroviamo marginale nella prima parte diventa il protagonista di una delle parti successive, e viceversa. Di conseguenza, ogni personaggio porterà il suo carico emotivo differenziato, dando via via un colore e un’impronta diversa alla storia. Il mutare del cosiddetto POV (Point of View), e cioè del punto di vista, rende la narrazione più vivace e criptica, alimentando così la curiosità del lettore, che soltanto alla fine potrà comporre un quadro completo delle tante vicende che si intrecciano.

G.B.