Il sole del pomeriggio pesa sull’antico borgo di Caulonia, ancora intorpidito dal fascino notturno della prima giornata del Festival della Tarantella. Ma il torpore dura poco: i vicoli si risvegliano, l’aria si riempie di tamburi, di voci, di passi che ritrovano la loro cadenza nella danza e nella festa. Il cuore pulsante del paese ricomincia a battere.
In piazza Seggio, l’anima didattica del festival prende vita: corsi di tamburello e pizzica si susseguono tra le case, gli occhi curiosi dei passanti e le mani pronte dei partecipanti. È una trasmissione viva, orale e gestuale, che attraversa le generazioni: non è solo musica, è eredità, è un sapere antico che si fa presente.
Ma il pomeriggio ci riserva una perla rara. Lì, nel “salotto elegante” del festival lo spazio magico dell’affresco bizantino due grandi maestri si incontrano: Francesco Loccisano alla chitarra battente, Andrea Piccioni ai tamburi a cornice. La loro sintonia è immediata, silenziosa eppure potente. Come due viandanti che si riconoscono nel cammino comune, i due musicisti intrecciano suono e silenzio con una raffinatezza che commuove. La musica, lì, non è solo esecuzione: è evocazione. E in pochi attimi, il pubblico si ritrova catapultato oltre ogni limite geografico, direttamente dentro al tema di questa giornata: i confini.
Confini che vengono superati con coraggio e delicatezza anche nel racconto successivo. Anna La Rosa dà voce a tre giovani arrivati in Italia attraverso la rotta libica, che tanti naufragi e tragedie ha scritto nel Mediterraneo. Le parole sono dure, struggenti: parlano di prigioni, di abissi, di speranze tenaci. La musica di Fabio Magagnino avvolge questi racconti come un abbraccio. È il potere della musica.
Quando la sera comincia a calare su Piazza Mese, il Festival torna alle sue radici. La tarantella di Montemarano con la sua Zeza carnevalesca porta il pubblico dentro una festa ancestrale, dove il rito e la maschera si intrecciano con la danza. È il gusto delle origini, un antipasto gustoso di quel che verrà.
Poi, un salto nel tempo e nei linguaggi. Arriva Sarafine. Giovanissima, ma con il carisma di un’artista consumata, prende possesso della scena con disinvoltura. La sua musica è ibrida: tecno, pop, elettronica eppure radicata. Mescola senza paura, osa, trasforma. E trasforma anche Piazza Mese che sotto le sue note diventa una discoteca a cielo aperto. Ragazzi, ragazze, corpi in movimento. Ma, sorpresa delle sorprese, anche noi, i sessantenni di lungo corso, ci lasciamo trascinare, sorridendo. Sarafine è talento puro: si avventura anche nei classici del repertorio tradizionale, e lo fa a modo suo, con rispetto e freschezza. “Riturnella” e “Lu rusciu di lu mari” sono la sua dichiarazione d’amore alla tradizione. E il pubblico lo capisce.
E quando credi che la serata abbia dato tutto, arriva l’Orchestraccia. E qui, davvero, nessuno resta fermo. Giovani e meno giovani si fanno travolgere da un’ondata di energia, di suoni romani, folk, punk, teatro e ironia. La festa esplode. Sul palco, anche i direttori artistici si lasciano andare e a Morgan, si sa, basta un cenno per trasformare tutto in spettacolo.
Poi, come una carezza sulla notte, arriva il tributo a Rino Gaetano. Quelle canzoni, piene di malinconia e di verità, vibrano nell’aria estiva come preghiere laiche. E subito dopo “Malarazza”, quel grido del Sud che sa di rabbia e riscatto, di memoria e battito antico. Il ritmo sale, il sudore si mescola ai sorrisi. Si balla ancora, finché non si intravede l’aurora allo Sperone.
È la seconda alba cauloniese. Un’alba che sa di musica, di popoli, di incontri.
E il pensiero corre a domani, quando arriverà la Signora, Lina Sastri, custode di una Napoli viscerale, profonda, appassionata. Ma questa… è un’altra storia.
Intanto, Caulonia sogna. E noi con lei.

Pino Carella