Culti lontani nel tempo e nello spazio

È bello considerare la tradizione come una visione, un sistema fluido di relazioni ri-codificate in sistemi ricorsivi adattativi rivolti al futuro piuttosto che al passato. E questo perché la tradizione è un processo dinamico, aperto alle innovazioni, che fonda la sua essenza nella possibilità di una futura esistenza. In tutto questo, però, esiste un passato spesso molto scivoloso e lontano nel tempo e nello spazio.

Così, se fermiamo il tempo e fissiamo un punto nello spazio, possiamo accorgerci della forte eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi, o meglio in alcune tradizioni popolari calabresi. E continuando a fermare il tempo e a fissare diversi punti nello spazio possiamo intuire che la civiltà romana fu un insieme di sintesi e di distillazioni di antichi riti, conoscenze e credi che qui divennero qualcosa di incredibilmente nuovo.

E si tratta per lo più di culti lontani nel tempo e nello spazio. Lontani nel tempo perché si trattava di antichi culti, lontani nello spazio perché appartenevano a popoli e civiltà con cui i romani entrarono in contatto come, in particolare, quella ellenica, quella egizia e quella persiano-iraniana. Tutti popoli e civiltà che naturalmente a loro volta, e prima ancora, entrarono in contatto con altri popoli e civiltà.

Ritualità e sacralità romana

Ora, quando chiudiamo gli occhi in genere immaginiamo e vediamo l’immagine di una civiltà fatta da soldati sanguinari, di grandi giuristi e di legislatori. Però, se chiudiamo gli occhi ancora più forte possiamo vedere i romani anche come importanti ingegneri, architetti e artisti che hanno lasciato all’umanità una città meravigliosa con meraviglie disseminate in tutti i territori del loro impero.

Ma prima ancora, e stringendo ancora più forte gli occhi, possiamo addirittura vedere che il vero motore trainante della civiltà romana, diciamo il segreto del successo, fu la ritualità, la sacralità. Esattamente quel successo che permise ai romani di conquistare e regnare nell’intera area mediterranea.

Detto altrimenti, i romani avevano la mania di ritualizzare e sacralizzare ogni evento della vita individuale e comunitaria, e c’è da dire che lo facevano anche con una certa eleganza, con una certa raffinatezza, con una certa bellezza. Addirittura a partire dall’atto di fondazione, perché l’atto di fondazione della città fu un atto rituale, un atto sacrale.

Ad urbe condita

E allora, la fondazione di Roma avvenne nel 753 a.C. e precisamente il 21 aprile per opera di Romolo che in quell’atto funse da sacerdote, da pontifex, cioè da ponte, da mediatore tra terra e cielo. Fondazione che naturalmente fu rituale e che ci aiuta a riflettere sulla centralità della ritualità e del sacro nella tradizione romana.

Nell’atto di fondazione di Roma particolarmente importante fu il rituale del Mundus, rituale che ha preceduto quello del solco primigenio segnato con l’aratro trainato da una vacca e da un toro con il sacrificio finale dei due animali.

Il rito del Mundus fu un rito dedicato a Cerere, la divinità materna della terra e della fertilità, scavando una fossa riempita con primizie della natura e manciate di terra portante delle gentes originarie dai rispettivi territori, cioè gli arcaici clan familiari romani che parteciparono alla fondazione dell’Urbe. Fossa che fu di seguito chiusa con una pietra, il quadrato appunto, e dove fu acceso il primo fuoco di Roma. E anche nel fuoco possiamo ritrovare un’importante eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi, ma andiamo per gradi.

Riti

Bene, compresa la centralità del rito e del sacro nella tradizione romana, ci sono riti e complessi rituali romani che in qualche modo sono ancora oggi presenti o comunque oggi ancora vivi nelle nostre tradizioni popolari, seppur con connotati differenti e spesso a margine di alcune importanti festività religiose di culto Cattolico e Ortodosso. Diciamo che è forte l’eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi.

L’eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi è forte anche perché così come i romani operarono un processo di sintesi di credenze a loro lontane nel tempo e nello spazio, anche le nostre tradizioni sono il risultato di sintesi di tradizioni lontane nel tempo e nello spazio, e in un certo senso prefigurate in un futuro immaginato che trovano spazio in un qui e in un ora.

Dies Parentalis (Le feste dei morti presso l’antica Roma)

Le Parentalia, secondo la mitologia romana, erano le feste dei morti che, pur se inserite nel calendario religioso, si svolgevano prettamente in ambito familiare e all’interno della domus, cioè della casa.

Infatti, i romani erano molto legati al culto dei Lari, cioè divinità connesse con il culto domestico e numi tutelari del focolare domestico. In effetti, le immagini dei lari erano conservate nei larari, edicole in muratura o mobili in legno adornate di ghirlande di fiori poste in genere nell’atrio della casa.

E allora, queste festa era celebrata per onorare i parenti defunti e si svolgeva nella settimana che andava dal 13 al 21 febbraio, e non come noi il 2 novembre. In quest’ultimo giorno chiamato Feralia si credeva che le anime dei defunti potessero girare liberamente tra i vivi, così i parenti visitavano le tombe dei loro cari portando offerte di vario tipo, e si usava addirittura consumare pane e vino accanto alle sepolture offrendola ai defunti.

Ora, questo rito e queste credenze sono a noi molto familiari infatti, in un paese in provincia di Cosenza, e precisamente a San Demetrio Corone, comunità Arbëreshë, avviene qualcosa di molto simile.

La festa dei morti a San Demetrio Corone

A San Demetrio Corone la festa dei morti è una festa mobile, così come previsto dal calendario liturgico ortodosso, e il culto popolare si celebra annualmente il sabato che anticipa la domenica di Carnevale, esattamente quindici giorni prima dell’inizio della Quaresima.

Così come nell’antica Roma anche a San Demetrio Corone la festa dei morti dura un’intera settimana, detta anche settimana delle Rosalie o Java e Shales, e anche a San Demetrio Corone è diffusa la credenza che i defunti escano dall’oltretomba per far visita nei luoghi dove sono vissuti. Un rito, fra l’altro, descritto da Mario Bolognari nel suo Il banchetto degli invisibili.

Qui le cerimonie della Java e Shales durano un’intera settimana (da sabato a sabato) e quest’ultimo è un giorno di grande tristezza, un giorno che non dovrebbe mai arrivare, è il giorno in cui i defunti rientrano nei sepolcri. Accade allora che i due principali momenti rituali del giorno dei morti a San Demetrio Corone sono la processione al cimitero e l’elevazione della Panaghia.

Durante la processione i fedeli intonano il canto Tek jam i thell (Dove sono sprofondato), un canto funebre in lingua Arbëreshë e, all’arrivo dei fedeli nel cimitero segue la celebrazione della messa nella chiesetta, il Papàs benedice l’ossario e bussa 3 volte nella porta di ferro per salutare i defunti che sono dietro. A questo punto i parenti degli estinti si appartano presso le tombe dei propri cari, segue il consuma rituale di cibi e bevande invitando chiunque passi a partecipare.

Il giorno dei morti a San Demetrio Corone in Calabria

L’altro momento rituale del giorno dei morti a San Demetrio Corone è il rito della Panaghia, la Tutta Santa. Così, terminato il banchetto dei defunti sulle tombe dei cari estinti e lasciato il cimitero, il corteo fa ritorno in paese e i fedeli rientrano nelle proprie case.

Il Papàs, quindi, si reca presso le case delle famiglie che nel corso dell’anno hanno subito la morte di un familiare, qui il Papàs trova i familiari del defunto con parenti e amici intorno a un tavolo imbandito con vino, pane e ciotole con grano bollito sulle quali è posta una candela accesa. Su un altro tavolo, invece, sono esposte le fotografie degli estinti da commemorare, in modo del tutto simile ai larari romani.

Il giorno dei morti a San Demetrio Corone in Calabria

© Mario d’Alfonso – Festa dei Morti – San Demetrio Corone (CS)

Il Papàs procede nell’elevazione della Panaghia in onore degli estinti con vino, pane e grano bollito in ciotole con candela sovrapposta e spenta dopo aver recitato preghiere e salmi. Il Papàs, quindi, consegna il grano bollito con fette di pane ai fedeli che consumano i collivi in raccoglimento.

La Strenna natalizia e i dolci antropomorfi

Altra eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi è la strenna natalizia. La strenna natalizia non è solo l’insieme dei regali che si scambiano nel periodo di Natale, ma ha a che fare con i Die Natalis romano e i regali della Befana.

Ora, la Dea Strenna era un’antica dea italica che fu poi assunta nel Panteon Romano. In suo nome si scambiavano doni augurali durante i Saturnalia, festività che si svolgevano dal 17 al 23 Dicembre in onore del Dio Saturno che anticipava il giorno del Die Natalis.

Strenna, infatti, secondo alcuni, significa regalo di buon augurio e dalla Dea Strenna derivò il termine strennae, cioè doni di vario genere da scambiarsi durante i Saturnalia e soprattutto da fare ai bambini.

La Strenna natalizia, però, viene anche dalla festa dei sigillaria che prende il nome da una statuetta di argilla che si scambiava tra parenti e amici il 20 dicembre, ai bambini si usava invece donare biscotti che rappresentavano la dea con diversi seni. E allora, per insistere sull’eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi, c’è da dire che biscotti dalla forma di donne prosperose, o comunque dalla forma antropomorfa ,sono diffusi in tutta l’area mediterranea e anche in Calabria, seppur inseriti in complessi rituali del tutto diversi.

Come i famosi mustazzoli o mostaccioli di Soriano Calabro, che sono dolci rituali che riproducono diverse forme sia antropomorfe, zoomorfe, ittiomorfe ma anche altre forme come cuori, panieri, a S rovesciata, a goccia o palma, insomma tutte forme simboliche che richiamano a qualcos’altro.

I Mostaccioli di Soriano Calabro

Poi ci sono i meno famosi Vutureddha, particolari dolci rituali dalla esclusiva forma antropomorfa offerti come ex-voto durante la festa votiva di San Floro a San Floro, un martire cristiano vissuto nel 100 d.C., festa celebrata la prima domenica di Maggio a San Floro appunto. I Vutureddha sono esposti all’interno della Chiesa a termine della messa e acquistati nuovamente dai fedeli a riscatto e con libera offerta.

Il rito del Voto di penitenza a San Floro in Calabria

E ancora, nell’area grecanica calabrese, che coincide con la zona più meridionale della Calabria in provincia di Reggio Calabria, è particolarmente diffusa la Musulupa che non è un dolce ma un formaggio tipico prodotto in quest’area modellato in tradizionali stampi di legno di gelso intagliato, le Musulupare appunto, e consumato ritualmente specie nel periodo di Pasqua. La Musulupa si presenta in 2 principali forme, una antropomorfa con una donna particolarmente prosperosa, e l’altra a disco con decorazioni che propongono una serie di seni femminili.

La Musulupa: il tipico formaggio dell'area grecanica in provincia di Reggio Calabria

Naturalmente queste forme lasciano riferire al culto della Dea madre, ma noi sappiamo che anche i Romani attinsero da antichi culti e credenze.

Le strine natalizie

Ora, per ritornare all’antica Roma, e per continuare a insistere sull’eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi, alla dea Strenna era stato dedicato un locus, cioè un luogo sacro, la dea quindi simboleggiava prosperità, potenza e fortuna. Strenuo, infatti, significa forte e corrispondeva alla capacità di allontanare gli spiriti maligni.

Così, la strina è ancora oggi un canto natalizio che si esegue di casa in casa porgendo gli auguri ai componenti della famiglia e nelle campagne si fa dal periodo che va dall’immacolata concezione fino al Natale. In Calabria sono famose, per esempio, le strine di San Giovanni in Fiore, qui i musici si recano di casa in casa intonando canti beneauguranti con una specie di questua chiedendo in cambio doni e cibarie, o consumando un bicchiere di vino.

I fuochi di Santa Lucia

Per citare un’altra eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi, il colle Viminale ospitava un bosco sacro di salice viminale, una qualità di vimini con cui si facevano e continuano a farsi delle scope, scope di saggina con fasci di vimini che a quel tempo erano sacre. Si tratta di una scopa che posta davanti all’uscio di casa proteggeva la porta dagli spiriti maligni e si usava anche a fine o inizio anno. Si tratta di un’immagine molto familiare per chi è abituato a frequentare i paesi dell’entroterra calabrese.

E ancora, intorno al solstizio d’inverno si usava ardere un grosso ceppo anche perché alla Dea Strenna e alle strenne era collegata la festa del fuoco, oggi Santa Lucia il 13 dicembre. E neanche a dirlo, i fuochi rituali accesi in onore di Santa Lucia è una tradizione ancora molto diffusa in diversi paesi della Calabria, soprattutto fra le comunità di pastori.

L’eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi, un cerchio che non si chiude

Insomma, l’eredità romana nelle tradizioni popolari Calabresi, di tutte le regioni d’Italia e dei territori che governarono è un cerchio che non si chiude. È un cerchio che non si chiude esattamente perché sono tante le tradizioni tramandateci dai romani, che a loro volta le presero in prestito modificandole per sempre da civiltà e culture con cui entrarono in contatto.

E anche noi, in passato come oggi, nel centro del mediterraneo entriamo in contatto con altre culture, e questa è una fortuna.

A presto, Sergio.

Ps: l’articolo è liberamente tratto dal mio intervento alla conferenza Per volere della divinità in occasione della mostra Imperatores presso il complesso monumentale del San Giovanni di Catanzaro. Articolo originario di seguito pubblicato nel primo numero di Mediterraneo.


Ciao, sono Sergio Straface e sono un Antropologo. Mi occupo di ricerca etnografica e lavoro nel Marketing e nel Management dei Beni Culturali e del Territorio. Qui scrivo di tradizioni popolari e folklore – ricette e food – religiosità popolare – reportage – comunità storico-linguistiche calabresi – abbazie, chiese, conventi e santuari… insomma tutto quello che ha a che fare con l’universo etno-antropologico soprattutto in Calabria. 
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