di Francesco Marrapodi
Mi chiedevo se ancora c’è chi si ricorda della ‘mendulata: antica bevanda della civiltà contadina calabrese. Un tempo, essa rappresentava il “nettare dei poveri”, preparata con cura e parsimonia in un contesto in cui ogni risorsa era preziosa. Dopo il raccolto delle mandorle, questi frutti venivano custoditi gelosamente nei catoj — freschi depositi scavati nella pietra o ricavati nei sottoscala — in attesa del Natale, quando sarebbero stati impiegati come ingredienti principali nei dolci tradizionali. Tuttavia, in annate particolarmente generose, si poteva osare un piccolo lusso: trasformare parte del raccolto in una bevanda rinfrescante e nutriente, apprezzatissima durante la calura estiva. Nasceva così a ‘mendulata, un elisir semplice ma ricco di sapore, simbolo dell’ingegno e della sobrietà contadina. La preparazione seguiva un rituale preciso: si iniziava rompendo i gusci delle mandorle con uno schiaccianoci, liberandone i semi. Questi venivano poi pestati in un mortaio, fino a ridurli in una polvere fine. A questo punto, la polvere di mandorla veniva avvolta in un telo da cucina pulito — spesso in lino — e immersa in un recipiente colmo d’acqua. Lentamente, l’acqua si arricchiva del gusto e del profumo delle mandorle, trasformandosi in una bevanda lattiginosa, dolce e dissetante. Oggi, la ‘mendulata sopravvive nella memoria di pochi anziani e nei racconti tramandati oralmente. Eppure, essa racchiude in sé un patrimonio di sapori, gesti e saperi che merita di essere riscoperto e valorizzato come parte del ricco mosaico della cultura alimentare calabrese.