Il territorio, con le sue bellezze , con le sue piante ,spontanee , identitarie, che non solo danno quel tocco decorativo che alimentano quel colore verde, punzecchiandoci naturalmente a considerare quell’importanza di essere VERDI dentro, a sostegno e tutela della nostra terra, facendo ognuno di noi la giusta e doverosa politica del non violentare la stessa ed i  suoi veri attori floreali e animali. Giusto un verde , dominante , colorato da diverse qualità del suo frutto, avrete intuito che dal titolo cresce spontaneamente ed ha le spine e ci regala dei dolci frutti , non si può sbagliare , si tratta del normalissimo FICO D’INDIA, in botanica denominato come OPUNDIA FICUS -INDICA. La loro origine e’ messicana, addirittura dalle civiltà INCAS che ne facevano grande uso, la loro origine del nome e’ contesa in diversi tesi, ossia quella che Cristoforo Colombo , avendoli visti nella sua scoperta delle Americhe, che in un primo istante ,era convinto di aver scoperto le Indie, li avevano battezzati come i fichi d’India, un altra tesi quella che potrebbe essere quella , di una storpiatura nel nome, come i FICHI d’INCAS , in fichi d’India, di certo la loro provenienza e’ esatta , provengono dalla terra messicana che ha tante similitudini alla nostra , a quella italiana , dove cresce spontaneamente,copiosamente, quella che comprende le regioni Sicilia, Calabria, Puglia e Sardegna. L’isola siciliana contribuisce con il 90% della produzione nazionale , il restante 10 % se lo dividono le tre restanti regioni. Giusto per precisare che in Sicilia, e’ diffusissimo, consumato in diverse impieghi in cucina, pasticceria e in cosmetica, viste le sue proprieta’ e i suoi contenuti di potassio, calcio e fosforo.

 

IL SUO FRUTTO, e’ composto per 87% d’acqua e il 13 di carboidrati, la sua polpa e’ profumata, ci sono diverse varietà identificate nella bellissima Sicilia, visto che nell’isola della Trinacria, il mondo del fico d’india e’ vasto e incredibilmente interessante per l’uso e l’impiego che se ne fa del frutto e della pianta.Dal colore dello stesso si differenzia la varieta’, si va dal rosso denominato (sanguigno ), all’ arancione (sulfarina) e al muscanedda (bianco-verde). Che dire, se approfondito e studiato da esperti di settore , questo frutto molto diffuso dalle nostre parti e nella nostra regione, perchè , visto che il mercato europeo e del nord Europa, ha una comanda , non lo valutiamo come fonte di risorsa economica o addirittura non consideriamo la possibilità di riconoscerlo in DE.CO. o addirittura in un prestigioso riconoscimento facendogli  conquistare il marchio I.G.P.(Indicazione Geografica Protetta) per l’Italia? Questa e’ una proposta fattiva , diretta alla prossima giunta regionale che governera’ questa regione , stessa terra che si pone potenzialmente  ricca in prodotti I.G.P. e D.O.P.( tot 15—4 IGP E 11 DOP), facendo accostare ai prodotti I.G.P. esistenti, quale la patata di Cosenza,  il Limone di Rocca Imperiale  CS , la Clementina di Calabria, il torrone di Bagnara Calabra e dulcis in fundo,  la dolce Cipolla Rossa di Tropea VV, anche il FICO D’INDIA DI CALABRIA. Se la scommessa nella crescita , ci sara’ , di sicuro questa terra se la giocherà anche in questo settore, visto che la morfologia della nostra regione, offre a sviluppo agricolo , maggiori possibilità, cercando di rischiare verso le tipicità regionali e ingolosire i mercati esteri, con novità e identitari frutti che nella maggioranza del continente più vecchio non si reperiscono e che non devono essere portati da altre parti del globo. Quindi nel completare una nicchia , un aneddoto di un vecchio agricoltore di Calabria, e’ d’obbligo , al solo fine di aprirci la mente e toglierci le spine del vittimismo ed e’ quello che nell’operazione di pulitura e estirpazione del frutto in maniera volontaria, nel giorno di S.GIOVANNI Battista ci dice: ” NUN C’E’ KIU BEDDHA COSA, MU TI MANGI TRI FICHI D’INDIA A NATALI , POCHI SU PERMETTUNU, NUI U SAPIMU , ma preferimu NDI CATTAMU I DATTERI DA TUNISIA….VAI capisciali si governianti...UN aneddoto di un anziano contadino della vallata dello Stilaro che il giorno 24 giugno, giorno astronomicamente dove il sole raggiunge la massima distanza dall’equatore celeste nell’emisfero boreale e il fenomeno prende il nome di solstizio d’estate, in questa  notte si raccoglieva la gran parte delle erbe medicamentose, chiamate “erbe di San Giovanni” perché, secondo un’antica credenza, la rugiada che si forma in questa notte prodigiosa e dalle straordinarie proprietà benefiche, si trasmetterebbe alle piante; alcune di esse si ritenevano miracolose per scottature e tagli e si mettevano sott’olio. Il contadino ripuliva e toglieva gia’ i fichi verdi, per dare la possibilità alla pianta di germogliare ancora e darne il tempo fino a dicembre , di avere altri frutti ,privilegiati per chi come lui sul tavolo a Natale aveva e pretendeva, stesso tavolo che i giovani calabresi dovranno imbandire di speranza e spirito imprenditoriale agricolo e non solo, per avere sul tavolo di tutti i giorni la dignità di essere calabresi per averne il tavolo imbandito di risorse sempre più produttive per il futuro di questa terra ricca , ma di fatto la più povera nelle tabelle Istat nazionali.

NON PUNGETEVI NELLA RASSEGNAZIONE , MA RIPULITEVI NELLA SPERANZA DI PRODURRE, come fece il vecchio contadino dello Stilaro.

Gianpiero Taverniti

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